Diario di un esodo/2 – “Chiamatemi Jasmine”

La storia di una giovane siriana che scappa dalla guerra e si rifugia in Turchia. A Istanbul, oggi, aiuta i suoi connazionali a rifarsi una vita

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/04/sesana.jpg[/author_image] [author_info]di Ilaria Roberta Sesana. Classe 1981, alle spalle una laurea in Storia Contemporanea e un biennio all’IFG “Carlo de Martino”. Ama scovare storie, pezzetti di vita che permettano di raccontare e capire un po’ meglio la realtà che ci circonda. Collabora con AvvenirePopoliJesus e Altreconomia.[/author_info] [/author]

9 maggio 2014 – «Chiamami Jasmine». Accetta di raccontare la sua storia, ma non vuole usare il suo vero nome né quello della città da cui proviene. Ha paura, soprattutto per i genitori rimasti ancora in Siria e che non vogliono lasciare il Paese: «Mio padre preferirebbe morire sotto le macerie di casa sua piuttosto che partire». Famiglia benestante la sua, toccata solo in parte dalle violenze della guerra. «Ma chi te lo fa fare?», le chiedevano i parenti quando hanno saputo del suo impegno a favore dei profughi più sfortunati. «Non potevo restarmene in casa, senza far niente – spiega Jasmine -. E così con un gruppo di amici abbiamo iniziato a distribuire cibo, vestiti e medicinali ai rifugiati della mia città: sapevamo che non era permesso, ma non ci siamo fermati».È una ragazza minuta, elegante e piena di grinta. La sua semplice e spontanea generosità, però, l’ha resa una minaccia agli occhi degli agenti di Assad: «Non appartengo a nessun partito, a nessun gruppo politico. Nessuno mi ha difesa».

 

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E così decide di scappare. Jasmine arriva a Istanbul il 20 aprile 2012, quasi per caso, seguendo le indicazioni di alcuni parenti che le avevano indicato la megalopoli turca come il posto migliore dove trovare lavoro. «Ora cerco di sopravvivere. No, non mi sento a casa. La mia fortuna è il fatto di parlare bene le lingue, ho imparato il turco e sono riuscita a trovare un impiego in un’agenzia turistica – racconta con una smorfia -. Anche se sono costretta a lavorare in nero».

I primi mesi sono particolarmente difficili: trovare nuovi amici, rifarsi una vita, trovare il modo per mettere in salvo il fratello e gli altri familiari sono le sue priorità. Ma dopo poco tempo lo sguardo di Jasmine cade sui tanti profughi meno fortunati di lei. E decide che è tempo di rimboccarsi nuovamente le maniche. Il punto di svolta, l’incontro con Annabelle, una ragazza inglese che porta a Istanbul 300 chili di cibo, vestiti, pannolini, medicinali altri generi di prima necessità: «Io l’ho aiutata a contattare le famiglie più bisognose, a distribuire il necessario – racconta -. Tanti non sono sono siriani, ma non importa. Un bambino in difficoltà è sempre un bambino».

Col passare del tempo la rete si ampia, coinvolge alcuni colleghi e studenti Erasmus. La pagina Facebook del gruppo “Help the syrian refugees in Istanbul” è il loro punto di riferimento dove scambiarsi informazioni e organizzare la raccolta di generi di prima necessità ma non solo.

Alle famiglie che sono riuscite a trovare un appartamento in affitto, gli amici di Jasmine forniscono mobili, stoviglie, coperte e il necessario per vivere in condizioni dignitose: «Siamo tutti volontari, ci impegniamo nel tempo libero. Quando uno di noi incontra una famiglia in difficoltà mi chiama e ci mettiamo all’opera. Ma sembra non bastare mai».
Il numero di chi chiede aiuto, infatti, è sempre più elevato. E la situazione non è certo destinata a migliorare con il passare del tempo: «Ho sentito storie orribili: donne e ragazze costrette a prostituirsi per dare da mangiare ai propri figli». Eppure, malgrado le difficoltà, Jasmine non pensa all’Europa, non vuole “prendere il mare” per cercare un futuro altrove. Pensa invece alla sua amata Siria: alle moschee distrutte, ai bazar devastati, alle case ridotte a cumuli di macerie. Agli amici che questa guerra crudele ha costretto a un feroce cambiamento «e che ha trasformato le pecore in lupi. Ma come posso biasimarli? No, non voglio tornare. Non subito almeno: voglio conservare i bei ricordi della mia città e della mia gente».

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