Storie di abusi, inganni, violenze e diritti violati, storie d’invisibilità agli occhi di chi potrebbe e dovrebbe agire per evitare tutto questo: un rapporto di Amnesty International
di Martina Romanelli, tratto da FrontiereNews
10 maggio 2014 – Secondo un censimento qatariota del 2010, gli impiegati stranieri nel settore domestico sono poco più di 132,000 e circa due terzi sono donne. Non sembrano esserci dati precisi sulle nazionalità delle lavoratrici domestiche ma le provenienze più diffuse sono le Filippine, l’Indonesia, lo Sri Lanka. Secondo un’indagine del 2011 condotta dal governo del Qatar su oltre 500 famiglie-tipo, solitamente viene impiegato almeno un uomo come autista e due donne per la cura dei bambini e per le pulizie. Questi numeri danno una buona stima della diffusione sociale di questo tipo di lavoratrici. Amnesty International ha di recente pubblicato un rapporto sulle condizioni di lavoro di queste donne, conducendo interviste con 52 lavoratrici tra l’ottobre 2012 e il novembre 2013 e raccogliendo anche testimonianze di autorità, istituzioni, ambasciate dei paesi di origine, attivisti, accademici ed esperti indipendenti.
Il quadro che ne vien fuori non è dei più incoraggianti. Queste donne hanno testimoniato storie di abusi, inganni, violenze e diritti violati, storie d’invisibilità agli occhi di chi potrebbe e dovrebbe agire per evitare tutto questo. I fattori di rischio che alimentano questa spirale di sfruttamento sono principalmente rappresentati dall’isolamento rispetto alla propria famiglia e paese di provenienza, uno straordinario potere nelle mani dei datori di lavoro e un sistema legale che non è pensato per assisterle e aiutarle.
RECLUTAMENTO – Solitamente, le lavoratrici sono accolte all’arrivo in Qatar da un’agenzia di collocamento che in precedenza ha collaborato con un’analoga agenzia nei paesi di origine, con il compito di organizzare la richiesta dei permessi e l’incontro con i futuri datori di lavoro. I problemi iniziano a sorgere già in questa prima fase di arrivo nel paese. Le agenzie spesso impongono dei costi a carico delle lavoratrici (ad esempio tenendo per sé alcune mensilità), i passaporti passano dalle mani dei controlli aeroportuali direttamente nelle loro: le agenzie o i datori di lavoro hanno in questo modo un enorme potere di ricatto. Uno dei dati più diffusi nelle testimonianze raccolte da Amnesty, è che le lavoratrici si ritrovano in Qatar con un contratto molto diverso da quello che era stato loro promesso e con orari effettivi di lavoro che raggiungono le 14-18 ore, senza giorni di riposo e alla metà del compenso precedentemente concordato (si parla grossomodo di 200-250 dollari al mese).
CONDIZIONI DI LAVORO – Le condizioni di lavoro sono, nel loro complesso, estenuanti: orari di lavoro eccessivi (fino a 100 ore settimanali) e senza giorni di riposo, mancati pagamenti e ritenute sulla busta paga, confisca di passaporto e telefono cellulare, alloggi inadeguati che vanno dagli sgabuzzini alle cantine e restrizioni alle comunicazioni e ai movimenti. Tutto questo crea delle pesanti ripercussioni a livello individuale, in misura ancora maggiore se si considera che spesso queste donne subiscono molteplici forme di maltrattamenti. Una delle soluzioni potrebbe essere fuggire. Tuttavia sono pochissime le donne che riescono a raggiungere la propria ambasciata considerando che spesso il loro passaporto è “confiscato” e che, lasciando il proprio impiego senza l’autorizzazione del datore di lavoro (e dunque perdendo un valido titolo a soggiornare in Qatar), diventano automaticamente delle criminali.
IL “CRIMINE D’AMORE” – Un altro degli aspetti messo in luce da Amnesty è la complessità delle situazioni derivanti dalla presenza, nel codice penale qatariota, del crimine per “relazione illecita”. Molte donne che hanno subìto violenza, si guardano bene dal denunciare abusi alla polizia dato che la sentenza di condanna potrebbe arrivare a prevedere la reclusione fino a sette anni anche se, molto spesso, la pena effettiva è di un anno di reclusione più l’espulsione.
ASPETTI NORMATIVI – Le collaboratrici domestiche in Qatar, così come gli altri lavoratori immigrati di categorie affini, sono soggette ad un sistema di sponsor: al momento dell’ingresso nel paese infatti, un’agenzia di collocamento o soggetti privati garantiscono la loro regolare presenza nel paese. Il rovescio della medaglia è che i lavoratori non possono cambiare lavoro se non con il permesso del proprio sponsor; in caso contrario, la presenza in Qatar non è più giustificata, i lavoratori possono essere reclusi e anche espulsi. I lavoratori non possono nemmeno lasciare il Paese senza il permesso dei propri sponsor ma hanno bisogno di un “permesso di uscita” delle autorità che sia già stato approvato dal datore di lavoro. Anche se la legge prevede che, una volta terminate le procedure burocratiche, questi ultimi restituiscano il passaporto al lavoratore in questione, nella realtà molto spesso i datori di lavoro tengono con sé i documenti dei lavoratori, accumulando ancora più potere e controllo. Quest’asimmetria è ancora più evidente se si considera che i lavoratori stranieri non possono formare o aderire a sindacati. In aggiunta a questo, la legge qatariota sul lavoro non è applicabile ai lavoratori domestici. I lavoratori non possono quindi pretendere il rispetto dei diritti del lavoro, così come sono riconosciuti anche dalle norme e dai principi delle convenzioni internazionali: limiti alle ore di lavoro, giorni liberi, ferie, copertura delle spese mediche o anche la possibilità di ricorrere al Ministero del Lavoro. In Qatar lo stupro, la violenza fisica, il lavoro forzato e la tratta di esseri umani sono illegali e perseguibili ma non è prevista una normativa specifica per la violenza domestica. I “crimini d’amore” (le relazioni al di fuori del matrimonio) possono condurre anche alla reclusione in carcere.
In sintesi, nelle circostanze sin qui descritte è molto facile che i soggetti coinvolti dall’essere vittime diventino colpevoli. Questo è particolarmente evidente considerando che la “fuga” da condizioni degradanti e di sfruttamento è considerata come una violazione della legge-sponsor. Ancora più lampante è l’esempio delle denunce per stupro o violenza sessuale, casi in cui le lavoratrici possono addirittura essere accusate di “relazione illecita”, un reato penale. Tutto questo va condito con la tendenza, rinvenibile in una parte del sistema mediatico e sociale, ad amplificare stereotipi discriminatori come ad esempio in questa vignetta pubblicata dal Gulf Times, quotidiano nazionale in lingua inglese in cui è raffigurata una tata dispotica e aggressiva nei confronti di un bambino. Un’immagine molto lontana dalle testimonianze raccolte da Amnesty che invece parlano di donne vittime di abusi e prevaricazioni.
Per scaricare il rapporto completo di Amnesty ‘My Sleep Is My Break’: Exploitation Of Migrant Domestic Workers In Qatar, clicca qui.
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