I capi d’accusa sui vertici dell’amministrazione tunisina che repressero la Rivoluzione del 2010 sono stati riclassificati a “omicidio volontario” e “omissione di soccorso”. I moti provocarono la morte di 338 persone, le madri delle vittime chiedono giustizia
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/05/giada-frana.jpg[/author_image] [author_info]Di Giada Frana, da Tunisi. Giornalista pubblicista, laureatasi a Bergamo in Lettere con la tesi “La questione migratoria nei mass media italiani”. La passione per il mondo arabo si è sviluppata nel tempo. Ama scovare storie che vadano contro i pregiudizi su migranti ed Islam. Attualmente vive a Tunisi e lavora come freelance. Collabora con l’Eco di Bergamo, La Città Nuova, Linkiesta, Vita e Santalessandro.org. [/author_info] [/author]
[Poche ore prima la pubblicazione di questo articolo le madri tunisine hanno comunicato la loro decisione di sospendere lo sciopero della fame. Le donne hanno altresì fatto sapere che intendono comunque adire il tribunale civile di Tunisi per far sì che venga riaperto un nuovo processo]
13 maggio 2014 – «Sin dall’inizio dicevamo che non avremmo ottenuto giustizia per la morte dei nostri figli, ma nessuno ci ha ascoltato», racconta Fatma Ouerghi, una delle madri dei “martiri” della rivoluzione tunisina.
Fatma, così come altri familiari dei “martiri” e dei feriti della rivoluzione, da due settimane sta facendo uno sciopero della fame, per protestare contro “il verdetto della vergogna e dell’impunità” del tribunale militare che lo scorso 12 aprile ha assolto le persone inizialmente ritenute responsabili della morte dei loro cari.
In seguito a questa sentenza l’accusa di omicidio volontario e tentativo d’omicidio verso i principali imputati per la repressione attivata a Thala, Kasserine e Grand Tunis contro i moti rivoluzionari, è stata riclassificata ad “omicidio involontario” e “omissione di soccorso”.
In questo modo Rafik Belhaji (ex ministro dell’Interno), Ali Seriati (ex Capo della Guardia presidenziale), Adel Tiouiri (ex Direttore Generale della Sicurezza Nazionale), Rachid Abid (ex Direttore dei corpi antisommossa), Lotfi Zouaoui (ex Direttore Generale della Pubblica Sicurezza) e Jalel Boudriga (ex comandante dei corpi speciali) sono stati sollevati da ogni responsabilità nell’uccisione dei 338 morti e 2.147 feriti, dati secondo l’ultima commissione d’inchiesta.
«Di tutti i martiri – prosegue Fatma -, solo una settantina sono morti prima del 14 gennaio 2011, giorno della fuga di Ben Alì. Gli altri sono tutti deceduti nel periodo successivo». Non riesce a darsi pace Fatma: non può pensare che i responsabili della morte di suo figlio possano uscire di prigione, come se niente fosse.
Nessuno potrà ridarle indietro suo figlio, ma chiede solo che giustizia sia fatta: «Il giudice voleva darci un indennizzo monetario, affinché stessimo zitti, ma non ci interessano i soldi: vogliamo che i “terroristi” che hanno ucciso i nostri figli abbiano la giusta pena».
Lo scopo dello sciopero della fame è proprio quello di continuare a tenere puntata l’attenzione dei mass media e dei cittadini sul verdetto, per chiedere a gran voce che si riapra un nuovo processo e che ad occuparsene, questa volta, sia il tribunale civile. Accanto a Fatma, nell’edificio in rue de Grèce che ospita i familiari dei “martiri” e dei feriti della rivoluzione, sono sedute altre donne. Stringono tra le braccia le foto dei propri figli, foto che durante l’ultima manifestazione del tre maggio, organizzata dal Comitato in sostegno dello sciopero della fame delle famiglie dei “martiri” e dei feriti della Rivoluzione tunisina, hanno mostrato ai passanti. Sono foto di giovani, dai 17 ai 35 anni, provenienti da diverse parti della Tunisia.
Fatma mi spiega la storia di ognuno di loro, partendo proprio da suo figlio: «Si chiamava Ahmed, aveva 24 anni. Da anni abitava in Svezia, era venuto a trovarmi. Il 17 gennaio stava sorvegliando il quartiere insieme ad altri giovani (in quel periodo si erano creati gruppi di volontari che sorvegliavano i quartieri da eventuali scorribande, ndr), hanno notato persone sospette e hanno chiamato i militari. Questi per allontanarli dal luogo hanno sparato colpi ad altezza d’uomo: mio figlio è stato colpito alla testa ed è morto sul colpo».
Le altre storie hanno lo stesso retrogusto amaro: Mohammed Nasser Talbi, 23 anni, di Hammamlif, banlieue sud di Tunisi, morto in salotto per un colpo d’arma da fuoco sparato da un cecchino; Rami Albed, 17 anni, di Kebeli, morto durante un presidio; Marwen Jemli, 19 anni, di Thala, ucciso durante una manifestazione; Khaled Ben Nejma, di Bizerte, ancora vivo ma ritenuto invalido al 90% ed ora su una sedia a rotelle, in attesa di aiuti e cure.
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L’appartamento è un via vai di persone, si raccolgono firme per sostenere le richieste delle famiglie. «Riteniamo il verdetto contraddittorio rispetto ai dossier depositati – riferisce Charfeddine El Kellil, tra gli avvocati a sostegno delle famiglie -, non abbiamo più fiducia nel tribunale militare. Vogliamo che il tutto sia riaperto davanti alla giustizia civile».
Intanto in questi giorni quattro persone in sciopero della fame a causa delle condizioni di salute sono state portate in ospedale, per poi essere dimessi dopo i controlli necessari e la somministrazione di alcuni medicinali e riprendere lo sciopero della fame il giorno successivo. Uno sciopero che non sembra intenzionato a fermarsi, perlomeno finché i famigliari non riusciranno ad avere risposte concrete alle loro richieste.
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