In fuga dall’Eritrea, in Israele la vita dei rifugiati è sempre più complessa
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/08/fia.jpg[/author_image] [author_info]di Fiammetta Martegani, da Tel Aviv. Nata a Milano nel 1981 a dal 2009 vive a Tel Aviv. Dal 2012, dopo aver conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Antropologia della Contemporaneità, scrivendo una tesi sulla rappresentazione del soldato nell’arte e nel cinema israeliano, svolge, sempre a Tel Aviv, un Postdottorato in Cinema e Lettaratura Comparata. Nel corso di questi anni è stata corrispondente da Israele per il quotidiano online Peacereporter, il mensile E e il programma radiofonico Caterpillar di Radio2. [/author_info] [/author]
19 maggio 2014
“Se potessi scegliere, dove vivresti?”
“Ad Asmara!”
Mule é scappato dall’Eritrea sette anni fa alla ricerca di asilo politico e dopo un viaggio estenuante di circa un’anno, ormai da cinque vive in Israele, a Tel Aviv.
Inizialmente ha ottenuto un permesso di soggiorno e di lavoro che gli hanno permesso, nel giro di sei anni, di aprire addirittura una sua attività in proprio: un piccolo internet caffè, punto di riferimento per molti dei suoi connazionali eritrei, come lui, in cerca di rifugio politico in Israele.
Ma il governo Netanyahu, negli ultimi tempi, ha cercato di mettere i bastoni tra le ruote a molti dei rifugiati nordafricani, che nello scorso decennio sembravano aver trovato in Israele la loro “Terra promessa”.
La nuova legislatura, infatti, afferma che dopo cinque anni senza aver ottenuto il riconoscimento ufficiale come rifugiato politico è necessario ritornare al proprio paese, dove uno come Mule e come molti altri suoi connazionali verrebbe, nella migliore delle ipotesi, incarcerato.
“E qual è l’alternativa?”
“Andare in carcere qua…”
Mule spiega che l’unica altra alternativa che offre lo Stato di Israele e di essere trasferiti nel centro di detenzione a Holot, al confine con l’Egitto, da cui provengono la maggior parte dei rifugiati nordafricani in transito dalle loro terre.
“Per quale scopo?”
Secondo Mule lo scopo reale, in questo modo, e quello di scoraggiare i futuri profughi a tentare di varcare il confine.
Inoltre, sono sempre di più coloro che, dovendo scegliere tra vivere in carcere in Israele o vivere in carcere nella propria terra in quanto dissidenti politici, tutto sommato, preferiscono la seconda ipotesi, perché almeno possono essere vicini ai propri cari. Nell’ultimo anno sono “tornati a casa” in oltre duemila.
“Alla fine”, conclude Mule, “Bibi (Netanyahu, il premier israeliano) è riuscito davvero ad ottenere quello che voleva…”
A quanto pare sì. Ma per chiarirmi meglio le idee mi rivolgo al suo legale, il dottor Yuval Livnat, avvocato e docente presso la Tel Aviv University.
Il paradosso e che l’attività di Yuval, un programma speciale di collaborazione tra l’Università di Tel Aviv e altre ONG che lavorano per sostenere i diritti dei rifugiati politici, è finanziata dallo stesso governo che questi diritti non rispetta affatto.
“Il problema” mi spiega Yuval, “é che anche se Israele fa ufficialmente parte della Refugee Convention, tuttavia, dal punto di vista della legge consuetudinaria non si è mai attenuto a quelle che a quanto pare vengono interpretate soltanto come obbligazioni formali”.
Accade così che la percentuale di riconoscimento dello status di rifugiato politico in Israele vari tra lo 0,1 e lo 0,5 per cento, quando la media europea si aggira attorno al 15 per cento.
“Ma come è possibile?”
Yuval mi spiega che nella maggior parte dei casi l’Autorità Israeliana fa appello a ridicoli cavilli burocratici.
“Per esempio?”
Per esempio: se uno dei rifugiati in questione chiede asilo politico in quanto omosessuale ma nel Paese da cui proviene anni fa è stato permesso ad Elton John di tenere un concerto, per cui, dal punto di vista del giudice che ha emesso la sentenza, il problema dell’omosessualità non sussiste.
Ma il peggio, come mi spiega Yuval, e che nel 90 per cento dei casi non si arriva neppure al processo, perché la maggior parte dei rifugiati viene classificata nella categoria di “temporary protection”, ovvero lo status riconosciuto per molti anni dall’Unione Europea ai cittadini della ex-Jugoslavia.
“E a quel punto o si ritorna a casa o si finisce ad Holot?”
“Esatto!” Yuval mi spiega che inizialmente questo centro di detenzione era stato costruito per rispondere alla “legge contro l’infiltrazione”, legge emanata negli anni Sessanta al fine di fermare i terroristi che cercavano di infiltrarsi attraverso il Sinai. Fino ad oggi il centro era stato pensato per “ospitare” al massimo 3.000 persone, ma a causa dell’”emergenza nordafricana” ( sono attorno a 60mila i nordafricani richiedenti asilo in Israele) l’attuale governo ha già approvato un decreto per allargare il centro in modo da ospitare fino a 12mila persone.
A quanto pare per il governo israeliano è più facile ingrandire un centro di detenzione che riconoscere il diritto di asilo politico a chi, proprio come per il popolo ebraico, è stato costretto ad esiliare dalla propria terra, alla ricerca di rifugio altrove.
Per questo negli ultimi mesi Holot è diventato bersaglio di manifestazioni da parte di molti rifugiati politici e di organizzazioni non governative in difesa dei diritti dei rifugiati.
Mule, il cui permesso di soggiorno è ormai scaduto, si rifiuta di presentarsi al Ministero degli Interni per paura di essere mandato al centro di detenzione di Holot. Tuttavia mi dice che, anche se non sa ancora come, in qualche modo riuscirà a cavarsela, come ha sempre fatto.
Mule e sempre stato un ottimista, e la sua forza interiore e la sua voglia di vivere, fino ad oggi, lo hanno sempre salvato da ogni situazione, anche le più terribili da cui, come mi racconta, non avrebbe mai pensato di uscirne vivo.
Per molti, purtroppo, questa non è la Terra Promessa. Ma Mule non si da per vinto, e da qualche parte, un giorno, troverà la sua, come direbbe De Gregori, “cercando un altro Egitto”.
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