Un voto davvero europeo

Il 25 maggio si vota per il Parlamento europeo e per la prima volta è possibile dare precise indicazioni su chi dovrà sedere alla Presidenza della Commissione europea. Nulla di automatico e il processo di riforma è ancora lungo, prima di arrivare a un vero ed effettivo ruolo del Parlamento, a una rappresentatività reale del nostro voto al momento di comporre gli organi operativi europei. Non perdiamo questa occasione nel nome della gretta campagna elettorale dei personalismi

di Angelo Miotto

 

Un chiarimento prima di iniziare: la democrazia rappresentativa si esprime attraverso una delega, il voto, nelle mani dell’elettore. Se il sistema elettorale, o peggio se l’attitudine di chi è stato delegato o i meccanismi che lo inquadrano non dimostrano la reale efficacia di quella delega sulla costruzione della politica, il risultato non può che essere un allontanamento emotivo e razionale dal voto stesso.

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Detto ciò, e detto che siamo esattamente in questa situazione, proviamo a ragionare di questo voto europeo. Economia, finanza e politica sociale. La crisi delle banche fatta pagare ai cittadini, a più livelli, con organismi che balbettano più che parlare un’unica lingua. Il primo punto che vorrei toccare è proprio questo: la macelleria sociale – il termine non è per nulla esagerato – che è stata attuata senza timidezze in molti Paesi d’Europa non può che presentare il conto. Il caso greco, che è paradigmatico e simbolico, dice che una Troika ha in sé dei controllori che agiscono per conto terzi, perché non sono diretta emanazione di un voto popolare. L’unico, oltre alla Bce e al Fmi, sarebbe l’Unione europea, ma anche qui il meccanismo di governo della Commissione e del suo presidente risponde a logiche legate alle singole forze e momenti di forza vettoriale che si esprimono nei singoli Paesi dell’Unione.

Già in origine troviamo quindi un peccato originale che condiziona gran parte delle nostre scelte: è il meccanismo degli organismi sovranazionali che ripondono a precisi interessi.

Si è detto, ma ripeterlo non fa male, che questa Europa ha sofferto il lancio della moneta unica non tanto perché si è costruita una moneta forte, che blocca parte del potere di proposta extra Ue, ma perché impostare la dimensione europea sul dato economico e finanziario ha significato imprimere una precisa direzione di comunicazione, relegando a un piano assolutamente marginale l’altra Europa, quelle della solidarietà, della cultura, dello scambio, della conoscenza reciproca, quella, insomma, che piacerebbe a molti soprattutto fra i più giovani.

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L’accessibilità al viaggio, che è incomparabile rispetto a dieci anni fa, e lo strumento prezioso degli Erasmus universitari hanno favorito un meticciamento delle tradizioni, una consapevolezza di usi e costumi, colpiti abbondantemente dalla globalizzazione, eppure nella nostra Europa contemporanea chi è che parla a quel milione e mezzo di giovani che hanno sperimentato l’Europa dei popoli, quella delle persone?

Senza quel passaggio, senza tornare cioè a far vivere davvero una dimensione europea che scalzi le peggiori abitudini e i riflessi delle politiche nazionali, non si crea di certo qualche cosa che possa rispondere al termine ‘unione’. Questo concetto è talmente semplice da rimanere esterrefatti di fonte alla mancata applicazione dello stesso. Prova sufficiente di ciò sta nel vedere come stiamo vivendo questa campagna elettorale che si avvia al compimento, e cioè con titoloni che contrappongono partiti italiani, perché la propiezione del tema europeo è la governabilità a livello interno e la lotta di potere fra partiti, giocata tutta su basi e temi italiani.

Di più: lo stato drammatico della democrazia mediatica nel nostro Paese ci ha consegnato una campagna elettorale che è diventata una tenzone a due, con il morto. Il morto, politicamente, è Berlusconi/Dudù. Gli altri due sono Matteo Renzi e Beppe Grillo. E in nome della disfida su chi prenderà più voti nel proporzionale che useremo per Bruxelles è stato anche snaturato il concetto di voto utile. Utile a cosa? Non certo alle tematiche e al confronto politico che si gioca sul tavolo europeo. Una visione deformata, propinata in maniera interessata dai giornali partito come Repubblica e riproposta dai grandi siti di informazione dove Grillo da Vespa fa notizia d’apertura e appuntamento seguitissimo.

Eppure, se frequentassimo di più anche gli organi di comunicazione predisposti dall’Unione europea, ci accorgeremmo che molto è stato fatto, che molto rimane da fare, ma soprattutto che tutti i temi di scontento o di polemica a livello nazionale potrebbero trarre un gran vantaggio e giovamento in una discussione sul livello superiore a quello del singolo Paese.

Tutto questo non toglie che la politica che si gioca nell’Europarlamento si incrina di fronte ai meccanismi stessi dell’Unione e alla mancanza di volontà politica di parlare davvero – e seriamente – con un’unica voce nei dicasteri più importanti e a livello internazionale.

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Fra i tanti temi che andrebbero sviscerati uno a uno come i grani di un rosario, perché i misteri sono tutti dolorosi, c’è il populismo e le destre euroscettiche, perché euroscettico è il ventre molle delle società di fronte a messaggi superficiali e disinformati. Ma l’accento si posa, senza dubbio, sulla possibilità del meccanismo delle larghe intese. Se cioè i popolari europei e i socialisti europei non avranno un margine l’un sull’altro per dichiararsi vincitori, e se la Lista Tsipras non dovesse riuscire ad avere un numero di europarlamentari decisivi, è un dato assodato che si andrebbe verso un governo congiunto, le famigerate ‘larghe intese’ che si riproporrebbero anche a livello europeo.

Non è il meccanismo in sé della gande coalizione a essere sotto accusa, anche perché si tratta di un modello che la politica ha a disposizione, spesso per fasi che si consideravano transitorie, nell’attesa di ricostruire maggioranze che avessero acqua per manovrare. È l’uso strumentale che se ne è fatto negli ultimi tempi e un pericolo inevitabile di appiattimento, di assuefazione con risultati di analfabetismo di risulta che le larghe intese provocano all’interno di quello che sempre di più manca alle grandi formazioni politiche: un disegno e un programma che abbracci la ‘concezione del mondo’ nella sua complessità e non solo quel che sicuramente ci interessa sapere rispetto alle mani che entrano ed escono dal nostro portafoglio. L’utilitarismo economico e finanziario è spinto verso l’individualismo ormai vittorioso nelle società mature, la stessa atomizzazione è stata ricercata e ottenuta dal capitalismo nelle sue forme e denominazioni più contemporanee per rompere, frammentare e radere al suolo il pericolo di ragionare per classi, di reagire nel nome di una solidarietà di massa, laddove la massa non esiste più come percezione reale di condizione.

Intendiamoci: guardando i dati sulle povetà, la disoccupazione, l’inoccupazione, le discriminazioni di genere, le vittime dei tagli allo stato sociale, potremmo confutare quanto scritto sopra, perché i numeri ci dicono che quelli sono bacini con cifre considerevoli. Ma quei collettivi vivono in un individualismo che raramente consente loro di proporsi come forza dirompente rispetto all’ordine voluto e costituito dai grandi gruppi di interesse e di profitto.

L’esempio spagnolo, con una presa di coscienza particolarmente partecipata grazie al fenomeno sociale degli indignados e le sue trasformazioni dal Movimento 15-M alle altre sigle che si sono succedute in questi tre, tre, anni non ha trovato eguali, se non per fenomeni simili, ma meno longevi.
Il voto utile, allora, diventa quello che può impedire le larghe intese, perché queste ultime non fanno altro che creare soluzioni di compromesso fra linee politiche che hanno solo una cosa in comune e cioè quello dello sbiadire le proprie posizioni estreme in favore di proposte che cercano il ‘centro’.
Eppure mai come oggi, in temi di globalizzazione e localismi, in tempi di secolarizzazione sfrenata e di mobilità sempre meno informata e dimentica della storia delle grandi famiglie politiche, mai come oggi avremmo bisogno di schierarci, di essere partigiani di un modo di vivere, perché non esiste un progetto che si possa dire comune a livello di progettualità politica se non quello che a furia di smussare le punte delle proprie lance non fa altro che presentarci strumenti incapaci di offendere e difendere.

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Perché è utile votare, allora? Lo è solo se si capisce che l’Europa è importante e la sua voce è dirimente a livello internazionale, la sua forza, se fosse capace di parlare con una lingua sola, sarebbe un serio problema all’interno degli equilibri di geoeconomia e anche di geopolitica visto il caso ucraino, internazionali.

Se votare domenica 25 maggio diventa solo un esercizio di sbarramento su questo o quel partito nazionale, il caso italiano è disperante in questo, allora il voto è vuoto, svuotato completamente del suo significato e peggio che inutile, controproducente. Capirlo è difficile tanto quanto l’informazione sui programmi, sulle regole delle istituzioni europee, sulle possibili riforme e sulle potenzialità inespresse sono e restano lettera morta soprattutto nel sistema dell’informazione di massa, che invece predilige il click sulla solita zuppa che ingoiamo da anni, quella dell’insulto e della litigiosità, della volgarità e della battuta a effetto che guadagnano l’attenzione del primate che è in noi. Una regressione della specie, consumata nel nome di inutili Richelieu improvvisati, malati di delirio di onnipotenza.

La minaccia delle grandi intese è dietro l’angolo e, giusto per commettere lo stesso errore che abbiamo denunciato, sappiamo bene il mostro che generano: altro che stabilità!

Cerchiamo una concezione del mondo, chiediamola ai partiti che ragionano ormai solo di tasse, incentivi promesse spesso vane, mentre sono capaci di avallare, non tutti, le peggiori mosse dell’oligarchia finanziaria e delle banche, quella dittatura, come dice Gallino, che per riformare il sistema a suo piacere, e contenere le perdite, non ha esitato nemmeno un secondo a fare carne da macello di noi cittadini dell’Unione.

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