Una testimonianza da Berberati, Repubblica Centrafricana. Quella che un tempo era una ricca città, meta del turismo safari, oggi è in preda a una violenza cieca e sensa senso
di una cooperante da Berberati, Repubblica Centrafricana
26 maggio 2014 – C’è una scritta all’entrata dell’ospedale di Berberati che recita cosi’: “Io non voglio sapere chi tu sia, cosa fai, la tua razza o la tua religione, tu soffri e questo mi basta”, saggezza dei fondatori francesi nel lontano 1950 forse presagio di ciò che sarebbe accaduto in questo angolo d’Africa situato al centro del continente.
Nel 2013 le milizie musulmane Seleka ciadiane, sudanesi e centrafricane mettono a ferro e fuoco il paese e prendono il potere nella capitale Bangui. Qui a Berberati si verifica una connivenza politica con gli amministratori locali che non risparmia alla città più di 50 morti fra i suoi giovani e oltre 100 feriti.
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Berberati la “flamboyante” (fiammeggiante), seconda città del Paese, fino a 10 anni fa meta di turisti entusiasti dei safari nella foresta incontaminata e della calorosa ospitalità della sua gente. Come in tutto il Paese, anche qui musulmani e cristiani hanno convissuto per secoli occupandosi i primi dei commerci e gli altri del lavoro della terra, parlando tutti la stessa lingua il Sango, mangiando negli stessi ristoranti, bevendo la birra camerunense e divertendosi ai reciproci matrimoni. Berberati era una città ricca, ricavava il suo benessere dal commercio del legname, dei diamanti e dal lavoro della terra fertile e rossa. Poi così come gli improvvisi e spaventosi temporali africani, tutto è cambiato, il vento della morte e della sofferenza ha soffiato su queste terre, gli uomini hanno cominciato a sgozzare i propri fratelli a spaccarsi la testa e le membra a colpi di machete. Questo grosso coltello africano che nelle mani di donne e uomini è uno strumento di lavoro nei campi è diventato ancora una volta arma di morte nelle mani di gente senza Dio e senza morale.
In questo quadro desolante ai primi di febbraio si annuncia l’arrivo degli anti-balaka, le milizie “cristiane” che ripuliranno il Paese da tutti i musulmani. Ne sono rimasti un migliaio rifugiati in un quartiere della città. Chi ha potuto è già scappato verso il Camerun. I Seleka se ne sono già andati al nord, in città sono rimasti tanti anziani che non volevano lasciare la loro bottega e i loro figli. Comincia una spietata caccia all’uomo, senza senso, senza motivo, senza tregua. Le truppe di interposizione africane caricano i musulmani sui camion e li portano nell’unico posto dove possono essere protetti che non è la loro base militare ma il Vescovado. I profughi ricevono una stanza, da mangiare, acqua, ma sono minacciati ogni giorno di finire tutti bruciati vivi. 500 persone vengono evacuate sui camion dalle truppe africane ma altri 400 rimangono ancora lì, troppo complicata e difficile è l’evacuazione.
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Ibrahim ha 60 anni, è un uomo grande e grosso, ha un negozio in città, la famiglia è già scappata ma lui vuole rimane a sorvegliare la “sua roba”, tanto lo conoscono e i giovani di Berberati non gli faranno del male. E invece gli spaccano la testa con il machete, tutte e due le gambe e un braccio. Ha perso tanto sangue ed è in shock per il dolore e le emorragie, quando si riprende non fa che ringraziare noi e il suo Dio, pregando ad alta voce. Temiamo che lo vengano a cercare e lo finiscano ma la sua fibra forte cede prima, entra in coma e non si risveglia più. La cosa che mi rattrista di più è che è morto solo come un cane senza un parente vicino, siamo grati ai volontari della Croce Rossa che si prenderanno cura di seppellirlo e forse di rintracciarne i figli.
Ababakar fa il meccanico e anche lui ha non è più giovane aveva una bella officina e un figlio che voleva andare all’università. Arriva in ospedale con ambedue i tendini d’Achille recisi e le gambe fratturate, forse non potrà camminare mai più. Lui non riesce a capire e ad accettare come sia stata possibile tutta questa violenza e questo odio, cosa hanno fatto per meritarsi tutto questo?
Il giorno della caccia all’uomo sono stati uccisi sgozzati o a colpi di macete 10 persone. 15 feriti sono arrivati in ospedale dove hanno potuto essere suturati e operati e tre di questi gravissimi sono morti.
Anche i Peul una tribu’ musulmana che vive di allevamento di bestiame, principale fonte di carne per il mercato, viene presa di mira dalle violenze. Assistiamo donne magrissime che vengono dal nord dopo avere camminato a piedi nudi per più di 400 km, hanno le piaghe ai piedi e i figli malnutriti disperatamente attaccati al seno. In ospedale all’inizio abbiamo solo i pumplinut, un biscotto dolce salato molto calorico che loro rifiutano, e chiedono pane e sardine…
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Yoannes è un peul, ha solo 20 anni, lo ritrovano sul ciglio della strada semicosciente e moribondo con un braccio ormai in gangrena, gli hanno sterminato la famiglia e rubato tutto. Tutti loro troveranno rifugio al Vescovado, il dopo non è in programma.
Esaurite le vittime di “religione” la violenza delle milizie si è scatenata su tutti gli altri. Chi si imbatte in questi gruppi violenti viene costretto a proclamarsi anti-balaka e se non dà prova di esserlo veramente subisce il taglio del braccio con il machete, abbiamo suturato arterie, ricucito tendini e curato tanti pazienti con le medesime ferite.
Il conflitto si estende alle forze di interposizione africane prevalentemente ciadiane che a modo loro “vendicano” le vittime musulmane prendendosi il mandato di sparare e ingaggiare battaglie con anti-balaka e delinquenti comuni. La voce di Elvira, una coraggiosa suora italiana che vive a Berberati da 12 anni, si leva a denunciare anche questi atti di violenza da parte di chi dovrebbe conservare l’imparzialità e il controllo della sicurezza. Nello stesso modo un anno fa Sr Elvira aveva denunciato le violenze dei Seleka contro la popolazione civile di Berberati ed era riuscita a guadagnarsi il rispetto del loro capo opponendo un dignitoso (forse folle) rifiuto alla sua richiesta di consegnare soldi e partecipare alla loro parata militare
La cosa che più si percepisce a Berberati e il senso forte della comunità, del cercare insieme di non rassegnarsi alla guerra, all’odio, alla violenza. Nulla sarà più come prima dopo quello che hanno visto e ancora vedranno, sperano che la comunità internazionale possa aiutarli ma sanno che dietro a tutti questi colpi di stato ci sono interessi che forse “una parte della comunità internazionale” vuole continuare a gestire.
Siamo consapevoli che tutto il lavoro fatto dall’organizzazione umanitaria è stato reso possibile grazie alla buona volontà e alla cooperazione dei centrafricani, orgogliosi che ancora il loro ospedale possa tornare essere luogo di cura e non di morte e ci uniamo alla loro speranza che anche Berberati possa tornare a essere la Ville Flamboyante del passato.
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