29 maggio 2012, ore 9. La seconda grande scossa di terremoto in Emilia provoca la morte di 20 persone. Il ricordo di quei momenti nelle parole di chi c’era
la testimonianza di Francesca
29 maggio 2014 – Si pensa che domani sia sempre troppo lontano. E invece, si annuncia nel quotidiano che avanza, nella suoneria della sveglia, nel caffè in cui cerchi la carica per affrontare una nuova giornata, nei tragitti che compi per raggiungere l’ufficio.
Domani per me arrivò troppo presto. Ma nella fame di normalità avevo addentato i frutti acerbi, senza nemmeno considerare le conseguenze disastrose per la mia salute.
Ancora oggi il ricordo occlude un corridoio della mia mente. Quella mattina di “dieci giorni dopo”, quando tutti credevano nel ritorno della normalità, tra crepe, lacrime, mattoni scomposti, la paura tracciò il secondo atto tellurico.
Si manifestò in quel salto incredibile, cui corrispose nell’ordine: il sobbalzo del mio corpo, quello del mio gatto appallottolato nel suo angolino, l’oscuramento dello schermo del pc, il pensiero che presto mi sarei trovata sommersa da coriandoli che di carnevalesco non avevano nulla.
Lo specchio a figura intera traballò e cadde, riducendosi in decine di frammenti. L’intuito mi aveva suggerito di spostarlo accanto alla parete, lontano dalla scrivania: scelta felice, che mi preservò da ferite ai piedi, in fuga verso il luogo meno indicato. Non avevo il tempo necessario a pensare che le scale avrebbero potuto cedere prima di ogni altro elemento. Mi sembravano però solide, più di quelle quattro mura che abbracciavano sogni di carta velina.
A metà della rampa sentii una forza sospingermi indietro e sospingere il micio, che miagolò il suo terrore. Lo vidi infilarsi tra gli spazi dei gradini concessi dalla forma della scala a chiocciola, e scomparire nel corridoio, mentre io combattevo contro la creatura invisibile che voleva bloccare la mia fuga. In realtà combattevo con me stessa, contro la paura in cui cercavo una matrice di reazione. La trovai e la tradussi in un moto che diede nuovi impulsi alle mie gambe. Ripresi la fuga tra le stanze, la visione laterale resa cieca dall’urgenza di abbassare quella maniglia per varcare la soglia che mi pareva irraggiungibile. E io che avevo sempre creduto che altre cose fossero irraggiungibili! Con un sprint finale, mi trovai nel cortile, a osservare l’aspetto grottesco di quella primavera priva di dolcezze.
Dentro di me, era il subbuglio, i colori dei fiori di maggio erano visti attraverso una lente grigia e incrinata. Osservavo la facciata dell’edificio, simile a uno shaker scosso dalle braccia di un gigantesco barman e mi aspettavo la formazione di crepe che sarebbero diventate spaccature nel cemento.
La testa mi girava, l’infinito sembrava abbracciarmi in quell’orrore senza fine. Con la coda dell’occhio vidi il furgone di mio padre, una breccia nei pensieri bloccati. Nel loro flusso violento, fecero scaturire le preoccupazioni per i famigliari e gli amici, al lavoro in strutture già messe a dura prova dalla scossa del venti maggio.
Dieci giorni erano passati e tutti credevamo di essere al sicuro.
Mio padre scese dal furgone. Dopo essersi assicurato che stessi bene, si precipitò in centro, dove mia madre si era recata per fare la spesa. Non essendo cellula rizzata, non mi era possibile nemmeno provare a intercettarla con una chiamata, che comunque, considerai in un secondo momento, si sarebbe persa in un mare di etere intasato. Dovevo solo aspettare, con l’ansia che s’inerpicava fuori e dentro di me.
Mia madre arrivò, seguita dal furgone che sarebbe diventato il rifugio di diverse notti per i miei genitori.
Arrivarono anche mia cognata, che descrisse scene di panico, genitori a piedi che si precipitavano verso i cancelli del scuole, dribblando veicoli più simili a schegge impazzite.
Mia madre accese la radio. Notizie sconfortanti ci arrivavano, insieme ai presagi di morte. Crolli di aziende a Medolla, San Giacomo Roncole e Cavezzo. Cronache di nuove crepe aperte, di mattoni caduti, insieme alle poche certezze che avevamo conservato da quell’incancellabile venti maggio.
Quando seppi del crollo di un’azienda in cui lavorava un mio ex fidanzato, lo contattai. In quel momento sentivo la necessità di sentire che anche le persone più lontane dalla mia vita erano in realtà vicinissime. E con sollievo mi confermò che stava bene. Ma per un soffio: lui e i colleghi erano riusciti a fuggire dal fabbricato pochi attimi prima che crollasse.
Arrivarono nuove, potenti scosse: una alle 11.30, l’altra intorno all’1. Ci trovammo uniti in quella situazione d’instabilità estrema. Le case resistevano, il nostro equilibrio, meno. A ogni boato, corrispondeva il movimento che ci faceva urlare, mettere le mani nei capelli, pensare che anni di sacrifici sarebbe crollati. E invece, i sacrifici erano stati eretti su fondamenta solide e le pareti non erano di cristallo.
Dopo la terza e ultima poderosa scossa, ebbe inizio il periodo di passione. Si dormiva poco e male in un campeggio provvisorio allestito tra il verde del nostro giardino. All’arrivo del sonno, corrispondeva l’avvertimento della terra, che ci faceva balzare fuori dalle brandine. Forse ci prendeva in giro, giocavano con noi in maniera perversa, amplificando le nostre insicurezze.
Per settimane le ore si rincorsero lentamente, trasformando le giornate in baluardi di noia e attesa, scanditi da pochi riti.
Tutti a tavola.
Si lava i piatti.
Si legge un libro.
Si ascolta la radio, nell’attesa che arrivino i tecnici per le perizie di agibilità.
Si dormicchia.
Si passeggia sulle strade, in alcuni punti attraversate da crepe,ancora oggi presenti. Si osserva la desolazione, i campeggi provvisori, sentendo le lamentele di chi, in campagna si sente lasciato in balia di se stesso. Ci si sente soli, anche se i numeri di emergenza ci sono e con una telefonata, arriva la pattuglia a controllare che non ci sia qualche sciacallo in giro. Ma si avverte una solitudine. Ci si sente tutti piccoli, rispetto alla forza della natura, anche se le forze sono coese.
Arrivarono quindi belle notizie: l’agibilità della casa, prima, il lavoro poi, lontano. La fuga dalla Bassa per qualche ora, ma non da me stessa. Ero felice per una prospettiva che non contemplava quello che sentivo dentro.
Ma una stanchezza mi aveva ammorbato, mentre salivo e scendevo su treni che mi portavano in un tunnel sempre più buio. Negavo spudoratamente le mie ferite aperte, mi raccontavo, dopo una notte insonne per una scossa, che avrei dimenticato anche quella. Che avrei dimenticato quell’estate, aspettando un terribile Godot, l’ultima, scossa, frutto di un pronostico equivocato. Quella scossa non era mai arrivata. Meno male!
Ma a volte tornavo al solito, terribile film: la stanza, la fuga lungo le scale, la creatura invisibile che mi tratteneva, la salvezza inattesa. Poi, ci si svegliava vicino a propri cari, abbracciati da parole, gesti di solidarietà, dai pensieri delle persone che nella tua assenza su Facebook trovano un ragione per avere paura.
Arrivò anche ottobre: lo stress che turbinava ovunque, i ricordi che si proponevano nella veste di incubi. Ricorreva la prima scena del secondo atto. Quella paura che avevo cercato di negare, affogandola nel lavoro, in un’illusione, mentre intorno si creava un vuoto.
A nessuno che non sia toccato davvero dal terremoto gli frega davvero di come stai, se non diventa motivo di clamore o di pettegolezzi. La vita va sempre avanti, tutti vanno avanti, a dispetto di come rielabori situazioni difficili.Poi il malessere si è trasmesso al fisico, determinando un crollo. Settimane di dolori, l’orizzonte offuscato, la visione del futuro annebbiata. A quel punto ho iniziato a scrivere. Quando ormai tutto mi sembrava sul punto di implodere. Volevo strappare da me quell’episodio che mi visita in sogno, come un fantasma afflitto da una maledizione.
E così ho scritto. L’ho scritto sopra. Del “salto della casa”, dello schermo oscurato, del gatto in fuga, di quella forza che m’impediva di avanzare sulla via di fuga.
Ho scritto di quella mattina in cui credevo che le uniche paure che avrei dovuto affrontare sarebbero state quelle nate dalle mie false convinzioni e dalle innate insicurezze. Ma esistono anche le paure che vengono da fuori: s’intrufolano dentro di te, si nascondono dietro a sorrisi forzati e poi crescono, fino a farti star male, distruggendo le possibilità che hai in ogni ambito. Tu costringono così a diventare un eroe nel tuo piccolo. T’impongono un’azione decisa per non soccombere, per guarire dai ricordi che rischiano di ridurre la tua vita a un circolo dolente. E quando agisci, cerando di strappare la spina conficcata dentro, ti rendi conto che non devi dimenticare. Devi solo riprendere in mano la tua vita, dopo quei giorni di terremoto.
[foto di Giulia Bondi]
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