Sono passati almeno 10 anni dall’uscita di ognuno dei film che rivisiteremo in questo spazio, eppure, nel bene o nel male, nulla pare essere cambiato. Pare che le tematiche siano più attuali del previsto. Dunque, si ripropongono, proprio come i peperoni. Speriamo solo di digerirli il prima possibile
di Alice Bellini
30 maggio 2014 – Non sono mai stata una gran tifosa di calcio. Forse agli Europei e ai Mondiali, quando a giocare è l’Italia intera, ma la partita della domenica non mi ha mai appassionato. Nonostante ciò, trovo sia bellissima la passione per uno sport. Trovo che la competizione sana sia preziosa, la stretta di mano post-partita, lo scambio della maglietta. Ma poi mi disturba la tifoseria aggressiva degli stadi, la violenza che gode della perdita altrui ancor più che della propria vittoria, quella mania di vincere invece che partecipare, quella mania di darsi addosso come trogloditi.
Così mi hanno disturbato i commenti post-elezioni, di votanti divisi come in tifoserie, che si davano addosso come tifosi dopo un derby, troppo più occupati ad essere felici della perdita altrui, per rendersi conto che (per continuarla a dire in termini calcistici) nessuna delle loro squadre aveva vinto nessun campionato, anzi.
Perché rilassata e indisturbata una sola era la squadra che continuava a svettare sopra le altre, mascherata con un nuovo nome, un accento diverso, un appeal più giovanile e gioviale, ma con gli stessi identici giocatori, i suoi soliti tagli a istruzione e sanità, le sue corruzioni, i suoi finanziamenti agli F35, le sue pose televisive, i suoi specchietti per le allodole, le sue alleanze con quegli stessi ideali che invece dovrebbe combattere e quella fedeltà indiscussa a una promessa di immutabilità e favoritismo, tra tubi catodici, benessere fittizio e informazione privatizzata. Ma le altre squadre, ognuna rigorosamente a sé stante, chiusa sulla sua tifoseria e scagliata invasata contro tutte le altre, sembrano troppo occupate a vincere, o peggio, a far perdere il proprio piccolo derby, per preoccuparsi e prendere atto di come stia effettivamente andando questo campionato, ormai vinto e stravinto dalla stessa vergognosa squadra da ventenni a questa parte.
Così, mentre assistevo ai commenti da stadio, alle ole che miravano solo a gioire della disfatta altrui, o a disfare ancora di più, alle invettive e ai godimenti, mi è rivenuta in mente quella scena epocale della cinematografia italiana, in cui quattro amici di vecchia data e una ragazza si giocano qualcosa di fin troppo importante con una partita di calcio in mezzo al deserto marocchino.
1989, sulla colonna di Leva calcistica della classe ’68 di Francesco De Gregori, si assisteva a Italia-Marocco nello storico e italianissimo Marrakech Express di Gabriele Salvatores.
Una scena emblematica, di quelle che solo il cinema sa offrire, con i suoi toni e poetici e quella visione semplicemente più bella e artistica della realtà. Anche qui, come su Mediterraneo, ci troviamo davanti a una pellicola di una semplicità sconvolgente, che sa far riflettere senza appesantire e che lascia al buon intenditore le sue poche, ma efficaci parole.
I trentenni di allora, i cinquantenni di oggi. E la mia generazione, diretta discendente, a metà tra idealismo e disinteresse, tra calcio e politica.
Loro si giocano a calcio la libertà del loro amico, noi le elezioni politiche – e poi i loro risultati. E la gioia non sembra giacere nella vittoria, ma nell’alzare la coppa in faccia, come si suol dire. Ma se poi mi chiedo di chi è questa faccia, l’unica risposta che mi viene in mente è: “l’Italia”.
La critica a tutti i costi è qualcosa che mi ha sempre disturbato del modo italiano di far politica. L’incapacità di unirsi di fronte a un problema comune, anche se sono anni che non ci si vede, anche se ci sono state avversità passate o antipatie presenti, anche se sembra un’enorme follia, richiesta da un’emerita sconosciuta che rischia di farci perdere in un deserto implacabile, è ciò che sembra caratterizzare sempre di più tutti quei partiti e movimenti che mirano a un cambiamento concreto, a rovesciare le sorti di un Paese incancrenito, in cui cambia la sigla del partito al potere, ma non i suoi contenuti e non le sue politiche.
Lasciare che il tifo appartenga allo sport è in primis quello che mi auguro. Ritrovare la capacità di discutere costruttivamente invece che darsi addosso in maniera deleteria, dandola ancora più vinta a quel famoso problema comune che tutti però vogliono combattere così arditamente, è la seconda. Dialogare sembra essere sempre di più la prima grande necessità italiana, la capacità di trovare i punti di forza in comune, piuttosto che le differenze. Fare la famosa pace, invece che la guerra. Aprire orecchie, menti e braccia. Saper ascoltare. Saper coesistere, invece che chiudere i propri confini – sempre, in tutti i sensi.
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