A pochi mesi dal suo inizio l’Expo di Milano continua a catalizzare l’attenzione, ma quella sui ritardi, sulle tangenti, sulla mancata occupazione prevista, sui contratti d’appalto regalati e sulle consulenze d’oro. Per molti è il trionfo del peggio del Made in Italy
di Roberto Maggioni, foto Livio Senigalliesi
1 giugno 2014 – Lo ammetto, mi sono lasciato convincere anch’io dalla teoria delle mele marce. Inutile negare o fare finta di niente, anche Expo 2015 ne ha una: si chiama Expo 2015. Un evento anacronistico che 163 anni dopo la prima Esposizione, Londra 1851, ha perso ogni ragione di esistere.
Dal momento in cui raccontare e toccare con mano innovazioni e sviluppo industriale/agricolo/militare, passando per l’esibizione in patria del bottino coloniale e la conquista dello spazio, oggi il grande evento è ancor più che in passato un generatore di nocività per i territori che lo ospitano, debito per le finanze pubbliche, precarietà per il tipo di lavoro che offre, momento in cui sperimentare nuove forme di governo delle/nelle “emergenze” e del territorio.
Catapultato in Italia, poi, non poteva che diventare la più grande fiera della degenerazione del Sistema Italia. Non si scappa, inutile nascondersi dietro la foglia di fico “Expo c’è, facciamola al meglio”. Questo farla al meglio si fatica a vederlo e non potrà compensare le criticità, le conseguenze negative del grande evento, in parte frutto del made in Italy e in parte scritte nel dna delle Esposizioni Universali.
Prendendo in prestito David Harvey possiamo definire Expo la negazione del diritto alla città. Expo non nasce dalla partecipazione e dai bisogni reali delle persone che vivono i territori, ma da una idea di uso privato della proprietà pubblica e della città pubblica: Expopolis l’abbiamo definita nel libro scritto con gli attivisti milanesi di Off Topic.
I (pochi) buoni propositi si scontrano con la realtà, ovunque ti giri c’è qualcosa che non funziona, ben prima delle mazzette e delle tangenti strutturali al sistema economico-politico italiano. L’Expo milanese è diventata così una grande fiera del paradosso, dove le idee ambiziose sono state cestinate, il rispetto delle regole è stato sistematicamente aggirato, la costruzione dell’emergenza ha favorito l’illegalità, la spartizione ha ucciso concorrenza e merito. “Un’altra Expo possibile” sarebbe stato un atto rivoluzionario, e di voglia di fare rivoluzioni, da queste parti, pare non se ne senta il bisogno.
Expo è un evento regolato dal B.I.E. (Bureau international des expositions), l’ente intergovernativo privato, con sede a Parigi, nato nel 1928. Il B.I.E. ha le sue regole, gli Stati devono applicarle e in questo senso Expo è un format chiuso, un pacchetto completo da acquistare che risponde a interessi privati e di marketing.
Milano e l’Italia hanno poi messo il loro carico di follia. Fin dalla scelta dei terreni su cui fare l’Esposizione, che per regolamento devono essere pubblici. Invece Milano (Letizia Moratti sindaco, Roberto Formigoni presidente delle Regione) sceglie di farla su terreni privati: per metà di proprietà di Fondazione Fiera, l’altra metà della famiglia Cabassi.
Siamo tra il 2007 e il 2008, anni di conti in rosso per la Fiera di Milano. Poter mettere a bilancio quei terreni agricoli valorizzati e con cambio di destinazione d’uso è stata manna dal cielo: valevano 10-14 euro al metro quadro, sono stati venduti ad Arexpo, la società a partecipazione pubblica costituita a giugno 2011 per acquisire i terreni, a 164 euro al metro quadro.
I soci pubblici di Arexpo, Comune di Milano e Regione Lombardia, dovranno a fine Esposizione rientrare almeno dei 160 milioni spesi per comprare queste aree dai privati, che ringraziano. E venderle, infrastrutturate e valorizzate, ad altri privati. Per fare cosa, ancora non si sa.
Il bando pubblico vedrà la luce nei prossimi mesi, fino ad oggi si è parlato solo di idee e proposte non vincolanti, come la cittadella dello sport e lo stadio 2.0 del Milan. Con un vincolo: l’accordo di programma votato dai consigli comunali di Milano e Rho a luglio 2011 che prevede, tra le altre cose, un indice di edificabilità dello 0.52% che permetterà di costruire su metà dell’area una volta demoliti i padiglioni dell’Esposizione.
I grandi eventi non portano ricchezza o sviluppo, non valorizzano i beni pubblici, hanno costi sociali più alti dei benefici. La sbornia pompata dalla politica in cronica assenza di immaginazione e idee ha generato il mito dell’evento salvifico, il dispositivo shock che avrebbe dovuto traghettare Milano e l’Italia fuori dalla crisi. “Expo è una grande occasione” viene ripetuto dai conducenti di Expo come un mantra. Una grande occasione, ma per chi e per fare cosa? E alla fine di Expo, cosa avrà guadagnato la città pubblica?
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Ci sono sette parole utili a capire come si costruisce e cosa genera un grande evento come Expo 2015: debito, cemento, precarietà, poteri speciali, spartizione, nemico pubblico e mafie.
Il debito generato da 1.3 miliardi pubblici spesi per costruire il sito espositivo e 10 miliardi, tra investimenti pubblici e privati, per le opere connesse all’Esposizione. Una scommessa che ricadrà sulle spalle delle generazioni future, nel mezzo della più grande crisi economica degli ultimi cinquant’anni.
Il cemento di una Expo che per parlare di alimentazione e nutrizione si è mangiata ettari di terra del già martoriato territorio metrolombardo. Dal milione di metri cubi dell’area ex agricola su cui saranno costruiti i padiglioni, al suolo divorato dalle grandi autostrade resuscitate con la scusa di Expo: BreBeMi, Pedemontana, Teem, Rho-Monza, persino una parte della vecchia gronda nord milanese. In tutto oltre mille ettari di terreni agricoli, coltivabili, che una volta urbanizzati saranno consegnati al cemento per sempre. Insieme alle auto che porteranno, ai centri commerciali e ai poli della logistica che affiancano per definizioni strade e autostrade.
La precarietà del mito del lavoro tradito, Expo serve anche a sperimentare nuove forme di flessibilità e organizzazione del lavoro. Fuggendo dalle previsioni incontrollabili fornite da Expo Spa, sappiamo che i sei mesi dell’Esposizione si reggeranno sul lavoro gratuito di 18.500 persone, stima recentemente scesa a 10.000, forse per paura di un flop di adesioni. La campagna di reclutamento dei cosiddetti volontari è iniziata da pochi giorni e ha invaso le strade di Milano con cartelloni e manifesti.
Il tentativo di Expo Spa di interagire su web è stato un boomerang: scorrete su Twitter l’hashtag #askexpo per avere un’idea dell’incazzatura e dell’indignazione di chi pensava che Expo avrebbe generato lavoro e invece si ritrova proposte per lavorare gratis da due a cinque settimane. All’esercito di volontari non pagati, il 90% della forza lavoro impiegata in Expo, si aggiungono 835 contratti a tempo determinato tra stagisti, apprendisti e a termine. La selezione è stata affidata all’agenzia interinale Manpower. Sui posti di lavoro generati dall’indotto sarà meglio aspettare la fine dell’Esposizione.
Il punto però non è, o non soltanto, quanti posti di lavoro si generano con Expo, ma la qualità di questi posti di lavoro. Perché se anche l’indotto genererà alcune migliaia di nuovi posti di lavoro, questi scompariranno dal primo novembre 2015 e non avranno creato alcun meccanismo virtuoso di crescita. Il grande evento sarà però servito a spingere un po’ più in la l’asticella dei diritti, ampliare la precarietà, educare alla gratuità.
Poi sono arrivate anche le mazzette, la cosca degli appalti, il compagno G, le larghe intese, le mafie, il commissario unico commissariato dal commissario anticorruzione, l’antimafia da cacciare fuori dai cantieri, i contratti in deroga per non rallentare i lavori, la macchina del consenso, un posto al sole per tutti, l’immaginario artificiale, l’inclusione obbligata che fa sparire chi resta fuori, oltre 80 articoli del codice degli appalti derogati dal commissario, 33 aziende interdette dai cantieri per mafia, le traduzioni in inglese dei contenuti Expo derise dalla rete, i controlli antimafia solo per gli appalti da 100mila euro in su, gli appalti al massimo ribasso, i rincari record, i poteri speciali, gli appalti pilotati, la Via d’Acqua di cemento che fa incazzare i milanesi, 85 mila euro al Foglio di Giuliano Ferrara, 120 contratti assegnati con affidamento diretto senza gara pubblica, consulenze d’oro, la costruzione dell’emergenza, il governo dell’eccezione.
Ma nulla inizia e finisce con Expo: se la dimensione temporale del grande evento ha una data di inizio e una fine, le sue conseguenze no. Si sa, l’eccezione di oggi sarà la regola di domani.
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