Prima erano la discriminazione e la povertà. Ora ai problemi della comunità palestinese in Libano si aggiunge la mancanza di lavoro che viene affidato ai siriani in fuga dal conflitto nel loro Paese
2 giugno 2014 – «Non siamo libanesi. Non siamo stranieri. Non siamo rifugiati. Niente, non siamo niente». Così Sami definisce la condizione dei palestinesi in Libano, sospesi da oltre sessant’anni in uno stato di discriminazione e vuoto di diritti.
«Non abbiamo la cittadinanza libanese, se vogliamo viaggiare abbiamo solo un laissez-passer e non è facile ottenere un visto. Però non siamo trattati come gli altri stranieri, ci vuole un permesso per qualunque cosa e non sai mai se te lo concederanno. E ormai non siamo considerati come rifugiati: siamo qui da troppo tempo, in fondo ci si aspetta che ce la si cavi da soli. Soprattutto ora con l’emergenza dei profughi siriani. Ma i palestinesi che stanno ancora nei campi hanno forse meno bisogno ora solo perché ci sono i siriani?».
Sami – “palestinese di Jaffa”, come ama presentarsi nonostante sia nato e cresciuto a Beirut, rimarcando così l’origine dei genitori rifugiati del 1948 – inanella una negazione dopo l’altra per descrivere la precarietà di circa 250mila persone strette tra una terra in cui non possono tornare e un Paese in cui la loro vita continua a essere un’eccezione.
La questione della cittadinanza ai palestinesi in Libano è delicata. Molto dipende dal complesso sistema di potere libanese: le cariche istituzionali sono ripartite tra i vari gruppi religiosi del Paese sulla base del censimento del 1932, secondo il quale i cristiani maroniti rappresentavano la maggioranza. I palestinesi sono prevalentemente sunniti, cosa che – qualora fosse loro concessa la cittadinanza – potrebbe alterare l’assetto demografico del Libano, un rischio che né cristiani né sciiti vogliono correre.
A rendere ancora più precaria la situazione si aggiungono il divieto ad avere proprietà, registrare una società a proprio nome ed esercitare una ventina di professioni, dal medico all’ingegnere, dal farmacista all’avvocato. Tutte misure che hanno ulteriormente discriminato e marginalizzato i palestinesi. Diverse attività sono di fatto gestite da loro ma legalmente registrate a nome di cittadini libanesi, i quali a volte si fanno pagare discrete somme di denaro per il solo fatto di firmare le pratiche burocratiche. Oppure molti lavorano in nero, assunti senza contratto e senza garanzie.
Una legge dell’agosto 2010 ha equiparato i palestinesi agli altri lavoratori stranieri, cancellando il divieto che precludeva loro la pratica di certe professioni. Ora è sufficiente richiedere un permesso. «Ogni anno il Libano concede circa 100mila permessi di lavoro. Quelli per i palestinesi sono circa 200-300. Secondo te è cambiato qualcosa?», mi risponde Sami, sottolineando come il problema vada oltre la questione formale delle leggi. Nei confronti dei palestinesi esistono fortissimi pregiudizi, alimentati da diversi fattori.
Molto gioca il fatto che una parte della popolazione libanese li consideri responsabili dello scoppio della guerra civile, risultato dell’OLP di Arafat che agiva come “uno Stato nello Stato”, alterando così i già traballanti equilibri confessionali e di potere del Libano.
Gli ostacoli non riguardano soltanto i problemi di assunzione. Come ricorda Sami, circa il 70 percento dei palestinesi in Libano vive sotto la soglia della povertà; due terzi risiedono ancora nei campi sparsi per tutto il Paese, dipendenti dall’aiuto e dai servizi forniti dall’UNRWA.
Opportunità non ce ne sono, possibilità di impiego nemmeno. Alcune famiglie si arrangiano con piccole attività commerciali – magari in una stanza della casa, perché affittare un locale è troppo costoso – , mentre gli uomini lavorano nel fiorente settore edilizio libanese oppure nei servizi a basso valore aggiunto, spesso in modo occasionale.
E sono proprio queste le fasce che stanno maggiormente soffrendo per l’arrivo di oltre un milione (censito) di profughi siriani. «Sono disperati, accettano qualunque condizione e si accontentano di paghe da fame. Paghe che però per noi sono troppo basse. Sono troppo basse anche per molti lavoratori del Bangladesh o dell’Africa», mi spiega Sami. »Prova ad andare in un cantiere, uno qualsiasi. Vedrai che sono tutti siriani. Lavorano tutto il giorno, tutti i giorni».
I siriani in fuga dalla guerra hanno scatenato una lotta fra disperati non solo sul mercato del lavoro. I palestinesi lamentano che l’assistenza umanitaria ai profughi siriani abbia sottratto risorse prima destinate a loro. «L’anno scorso a Sabra e Shatila molti palestinesi non hanno gradito che i doni che tradizionalmente vengono mandati per la fine del Ramadan non siano stati distribuiti. Hanno dato tutto ai siriani. Nonostante la tragedia della Siria non si può dimenticare che noi esistiamo. I nostri problemi non si sono risolti per magia».
Impossibile ribattere, perché un’emergenza non ne cancella un’altra. Anche se questa dura da quasi settant’anni.
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