I Musulmani Anticapitalisti. Comincia con loro la galleria delle interviste alle varie anime della protesta di un anno fa a Istanbul
Il progetto delle voci del movimento Gezi Park sarà completato qui sul sito di Q Code Magazine, mentre interviste inedite saranno pubblicate sul prossimo numero de Il Reportage, nelle librerie dal 1 luglio prossimo.
di Christian Elia e Alessandro Ingaria
4 giugno 2014 – “Un sogno fatto dai giovani, dal quale sono emersi quattro concetti fondamentali per ricostruire la Turchia: libertà, rispetto, pluralismo e solidarietà”. Così un anno fa Ihsan Eliacik spiegava il movimento di Gezi Park, come portavoce di una delle anime della piazza e della protesta: Anti-Kapitalist Müslümanlari (Musulmani Anticapitalisti).
Un gruppo che salì agli onori delle cronache, dopo essere stato in piazza fin dall’inizio dell’insurrezione contro il progetto di distruggere il parco a Taksim, il 9 luglio dello scorso anno, primo giorno del mese sacro di Ramadan. Per i musulmani si festeggia tutti assieme, rompendo il digiuno della giornata. “Per l’uguaglianza, la libertà, l’Islam”, recitava l’invito a tutti a festeggiare assieme, per strada.
Nello stesso momento il premier Erdogan, il presidente Gul e tutta la nomenklatura del partito Akp era in smoking nei grandi alberghi a cinque stelle di Istanbul. Loro no, avevano imbandito per strada, per festeggiare tutti assieme, seguendo quello che per loro è il vero spirito dell’Islam.
Ecco che quella notte divenne un inno alla religione dalla parte degli ultimi: lungo Istiklal Caddesi, tra il liceo Galatasaray e la piazza Taksim, con tovaglie fatte da fogli di giornale, c’era il popolo, mentre i politici e i ricchi erano chiusi dentro il loro benessere. Un evento dal forte potere simbolico, almeno quanto lo striscione che annunciava l’arrivo dei Musulmani Anticapitalisti in piazza Taksim, che recitava la sura 39 del Corano: “Quando si trovano di fronte alla tirannide e all’aggressione si aiutano a vicenda, diventano un corpo solo”.
La loro sede, oggi, è in un palazzone grigio e malmesso nella parte asiatica della metropoli turca. Hakan, grande, grosso e sorridente, aspetta nel cortile. La stretta di mano come una morsa di acciaio, barba lunga e curata, in contrasto con la pelata. Nell’ufficio molti militanti sono accorsi per l’intervista, the e pasticcini, chiacchiere e sorrisi.
Dopo un anno il movimento è cambiato. La prima fase, dalla fondazione nel 2012 a oggi, è stata appannaggio della figura carismatica di Ihsan Eliacik, che fin dagli anni Settanta è un militante dell’Islam radicale, ma dopo il golpe del 1980, in carcere, si avvicina al marxismo senza perdere la fede, anzi, elaborando tesi ponte tra le due visioni del mondo.
“La proprietà appartiene ad Allah”, diventa uno degli slogan di riferimento, che come si può facilmente immaginare confligge con l’Akp e i suoi vertici, che del business sono protagonisti. Elemento interessante, anche perché finisce per rivolgersi anche all’elettorato più povero dell’Akp, pio e fedele ma non incapace di criticare lo stile di vita della classe dirigente.
“La critica che ci veniva mossa in quei giorni”, spiega Hakan, “è che eravamo in piazza con i senza Dio, con gli infedeli. Io e tutti gli altri, invece, sentivamo di essere con gente spesso diversa da noi, certo, ma con la quale dividevamo molti più valori di quelli che oramai ci legano a un partito che si definisce islamista. Il vero Islam è del popolo, per il popolo, per una società di eguali. Come può, oggi, Erdogan rappresentare questo? Come può questa classe dirigente di affaristi e palazzinari pensare di compiacere Dio?”.
Ma il marxismo rispetto alla religione aveva idee differenti da quelle di Hakan e dei suoi amici. Non ci vede alcuna contraddizione? Hakan ride: “Non tutto è corretto nelle teorie di Marx, ma i punti di contatto, la visione della società dal punto di vista degli ultimi, sono i punti su cui riflettere e lavorare”.
Rispetto a un anno fa, sono cambiate molte cose. Lo stesso Ihsan, al centro mediatico della scena, lascia spazio anche a giovani come Hakan, che riempiono i più di venti centri studi sparsi per tutta la Turchia. “Non ho mai avuto l’ambizione di contarci, ma puoi guardarti attorno: siamo tanti, siamo giovani, motivati e preparati ed è così in tutti gli altri centri in Turchia”, spiega Hakan. Poi sorride, saldo come una quercia, che ha le radici nel Capitale e nel Corano. “Questi sono due ingredienti che ti raccontano una cosa. Il futuro ci appartiene”.
Guardando al presente, però, cosa resta di Gezi. “Resta un taglio generazionale. Determinante. Oggi tanti, delle vecchie generazioni, ci guardano e allibiscono. Perché attraverso noi e tutti gli altri hanno potuto capire una cosa: la potere si può dire di no”, spiega Hakan. “Non sono d’accordo. A un certo punto tutte le proteste devono diventare progetto, alternativo e credibile. Noi lavoriamo a questo, lavoriamo a una fase due. Dopo aver potuto far riflettere le persone sul fatto che il vero Islam siamo noi, non certo l’Akp, che usa l’Islam per dividere i cittadini e per arricchirsi, dobbiamo diventare alternativa. Con gli altri restano ottimi rapporti, ci unisce un’esperienza indimenticabile, ci sono ancora contatti e relazioni. Ma non credo che il futuro sia in una movimento sfuggente: noi pensiamo in grande”.