Mustereklerimiz, i beni comuni. Continua con loro la galleria delle interviste alle varie anime della protesta di un anno fa a Istanbul
Il progetto delle voci del movimento Gezi Park sarà completato qui sul sito di Q Code Magazine, mentre interviste inedite saranno pubblicate sul prossimo numero de Il Reportage, nelle librerie dal 1 luglio prossimo.
di Christian Elia e Alessandro Ingaria
5 giugno 2014 – Nei giorni caldi di Gezi Park, un anno fa, il Muaf era appena nato. Un pub, su tre piani, come molti a Istanbul. E’ stato rifugio e piccolo ospedale per i manifestanti in fuga dalle violente cariche della polizia. Oggi resta un ritrovo per tanti ragazzi legati ai movimenti.
“Mi chiamo Firat, sono uno studente universitario. Ho sempre fatto parte di gruppi organizzati, in particolare quelli che lottano contra la gentrification a Istanbul, che da dieci anni non conosce sosta, con una speculazione edilizia che divora la città”. Firat, elegante e con un inglese fluente, parla di una storia che lo riguarda.
“Piccole lotte nel centro le conduco da tempo. Adesso, assieme ad altri, sono tra gli animatori del gruppo dei Mustereklerimiz, più o meno traducibile come ‘movimento beni comuni’. Un ombrello di organizzazioni, che si ritrovano attorno a particolari temi legati a una visione anti capitalista della società. Ci mobilitiamo contro le privatizzazioni, contro le speculazioni, contro la corruzione del potere politico – economico. Ci confrontiamo in forum costanti, per non perdere lo spirito assembleare particato a Gezi”.
Una brutta piazza, un piccolo parco. Eppure è diventato un simbolo estremo, di difesa di un’identità collettiva. “Prospettive comuni, beni comuni. E’ la cosa più naturale del mondo, ma l’abbiamo dimenticato. Il potere eonomico e quello politico sono ormai diventati un unico centro decisionale, che guarda alla città come a un business da gestire. Interi quartieri vengono mutati sociologicamente, da dentro, per creare delle comunità chiuse, in base all’appartenza di classe”, racconta Firat, mentre fuori dalle finestre del locale la vita di Istanbul non smette di scorrere.
“Se una zona interessa per una speculazione futura, viene lasciata precipitare la sua situazione, fino a quando la repressione si scatena – con la scusa di riportare l’ordine in città – e permette agli speculatori di comprare quei luoghi a quattro soldi, ristrutturarli e rivenderli a prezzi folli. Allo stesso tempo, il centro è stato totalmente destrutturato, in un’ottica di una fruizione solo per turisti e per ricchi. Senza più un’anima. E tutte le opposizioni, tutte le pluralità, le differenze devono essere espulse, anche con la forza. Gli ultimi dieci anni sono stati brutali. Ma attorno a Gezi è nato un movimento che è riuscito a dire basta, è abbastanza”.
“Anche perché questo esecutivo ha scelto la via del conflitto: sono loro i veri estremisti. Leggi contro lo stile di vita personale, contro la libertà di espressione, un soffocamento costante, continuo, un abbraccio che diviene sempre più stretto”.
Come ricordi i fatti di un anno fa? The event, come lo chiamano in molti. “Ero a Dyarbakir per i miei studi, e guardavo la tv. I miei amici erano in piazza fin dal primo giorno e mi raccontavano una realtà che nei media non esisteva. Ho deciso di partire, di raggiungerli, per vedere con i miei occhi. E ho visto un mondo intero in lotta: le mille anime di questo Paese, in piazza, tutti assieme. Persone che mi rendo conto di non aver mai incontrato, per differenza di vita, in una società molto compartimentata. Nella rivolta, vera rivolta, eravamo fratelli. E sentivamo una grande solidarietà da parte della gente, che ha potuto guardare il potere negli occhi. Non è bello quello che hanno visto – spiega Firat – Dall’altra parte è stato fondamentale creare un’esperienza alternativa, partecipata, dove ogni istanza avesse voce e spazio. Abbiamo praticato il confronto, è stato utilissimo per tutti imparare a lasciare indietro un pezzo di sé, per parlare con gli altri. I kemalisti e i curdi, per esempio, hanno avuto forti tensioni in quei giorni, come sempre. Ma hanno praticato il contronto, superavano il loro orizzonte di fronte alla partecipazione popolare”.
Un confronto che, all’epoca, ha trovato un collante nel nemico comune. Quel governo del premier Erdogan e del suo partito Akp che, per motivi differenti, è visto come il fumo negli occhi da realtà molto differenti in Turchia. Quello che unisce, però, è più forte di quello che divide? Può restare alta la partecipazione senza che prima o poi ci sia una sintesi dirigente, un’evoluzione, in senso istituzionale?
“E’ normale che il comune obiettivo aiutava a superare le differenze, ma il movimento nato a Gezi non è morto, anzi. Ha dato vita a un cambiamento profondo nella società turca. Voi vi stupite dell’ennesima vittoria elettorale di Erdogan, ci chiedete in che modo il movimento possa produrre qualcosa di concreto. Lo chiedete perché Gezi è la modalità delle lotte future. Diventare un partito, assecondare le scelte di un sistema che vogliamo sovvertire, diventarne parte, sarebbe stata la sconfitta. Oggi, invece, quel parco è ancora là. Questa è la vittoria”, risponde Firat.
“Il nostro gruppo è un forum, aperto, dove sono confluite realtà e storie molto diverse. Che condividono però tutti un’idea: da oggi decidiamo noi e lo facciamo fuori dai luoghi istituzionali che non rappresentano più nulla per noi. Quella stagione della rappresentanza è finita. Vi chiedete quanto resta di un movimento che non diventa partito, ma è proprio questo il punto: cambiano le forme, non finisce la protesta. La cittadinanza è la vera identità, così si superano le divisioni e le differenza che ti insegnano fin dalla scuola. Io mi sento europeo e asiatico, questa è la mia storia. Nessuna adesione all’Ue mi farebbe sentire più europeo di quanto sono. Per anni, con la dittatura dei militari, abbiamo guardato a voi come un modello, un esempio di diritti applicati. Oggi, non so. Distruzione dei diritti dei lavoratori, speculazione edilizia, privatizzazioni selvagge, anche di sanità e salute. Non vi riconosco più, e mi piacete molto meno”, racconta Firat sorridendo.