La variabile alevita, tra identità, religione e politica. Continua con loro la galleria delle interviste alle varie anime della protesta di un anno fa a Istanbul
Il progetto delle voci del movimento Gezi Park sarà completato qui sul sito di Q Code Magazine, mentre interviste inedite saranno pubblicate sul prossimo numero de Il Reportage, nelle librerie dal 1 luglio prossimo.
di Christian Elia e Alessandro Ingaria
7 giugno 2014 – “Gli aleviti sono musulmani senza moschee, né sunniti né sciiti. Turchi, ma anche curdi”. Questa la definizione che della minoranza alevita in Turchia, che rappresenta circa 10 milioni di persone, da Fabio Salomoni, lettore alla Koc University di Istanbul. Salomoni si occupa di migrazioni internazionali, memoria colelttiva e rapporti religione – società in Turchia, dove vive da anni, e nel Caucaso. E’ traduttore dal turco, autore di audio e video documentari, tra i quali Il leone e la gazzella, un documentario realizzato con Davide Sighele e Osservatorio Balcani Caucaso sull’identità alevita in Turchia. Salomoni è tra gli autori di #GeziPark – Coordinate di una rivolta, edizioni Alegre.
“La comunità alevita è il prodotto di una regione di confine. Spesso per l’alevismo si utilizza l’espressione di esperienza eterodossa, in realtà molto discussa, perché in tutte le religioni ci sono aspetti eterodossi, risultato di contaminazioni. Un’esperienza difficilmente collocabile, nata dal fatto di essere in una regione importante per la storia delle religioni, una faglia tra due continenti, tra la Turchia ottomana e preottomana, e un’altra identità, ancora turca, quella savafide. Turcofoni che si sono scontrati, fino al XVI secolo, fino al raggiungimento di un equilibrio che dura tutt’ora. Molte delle popolazioni sotto il dominio degli uni o degli altri erano nomadi, mobili. Condividevano una tradizione preislamica molto forte, fino a giungere in contatto con l’Islam, anche se nell’Impero Ottomano non era ancora religione di Stato, dove non c’era stata ancora tra tradizione sunnita o sciita, e i savafidi, che ricorrevano a queste tribù nomadi per ragioni militari e le influenzava. Gli ottomani li consideravano una quinta colonna dei loro nemici e le identità si solidificano negli scontri: quella ottomana è diventata una declinazione forte dell’identità sunnita, lasciando gli aleviti, nomadi, nel mezzo, tra due culture. Musulmani anche loro (anche se non tutti sarebbero d’accordo), portatori della loro storia e degli influssi ricevuti”, spiega il ricercatore italiano, in una sala da the di Beyoglu, nel cuore di Istanbul
A livello rituale, in cosa consiste l’unicità alevita. “L’importanza della figura di Alì, i dodici imam, il suo carattere sincretico ne hanno sempre fatto un’eccezione. Al punto che i missionari protestanti nell’800 ne restavano affascinati, credendo di individuare in loro una comunità protocristiana poi islamizzata con la forza. La triade Alì, Mohammed, Allah, portava i missionari a ritenere questo una sorta di riferimento alla trinità cristiana, piuttosto che il bere acqua durante le cerimonie religiose, o bere alcool liberamente. Questa curiosità, che aveva ancora una volta fini politici, portò l’Impero turco a ritenere gli aleviti una quinta colonna degli stati cattolici”.
Nella cultura politica turca sembra resistere una sorta di reticenza, di paura nei confronti del pluralismo. Diffidenza della quale, spesso, gli aleviti sono stati vittime. Perché? “Questo elemento nasce da due elementi fondamentali: il primo è il ricordo, la dimensione della memoria, come patrimonio condiviso di sofferenza associata al pluralismo. La Repubblica nata negli anni Venti dalle ceneri dell’Impero Ottomano, è comunque figlia di un’esperienza politica drammatica, quella della dissoluzione dell’Impero, che ritiene proprio il pluralismo come uno strumento che le potenze europee hanno utilizzato per legittimare il loro intervento negli affari interni della Sublime Porta, spesso per metterne in ginocchio la forza. Ancora oggi le minoranze, nelle loro rovendicazioni, trovano sponde all’estero e queste relazioni – come forma di pressione sulla Turchia – rendono vivi i traumi del passato. Resta una memoria del pluralismo come pericolo. Nella storiografia nazionale si è dimenticata, ma resta nella memoria comune. Perché l’esplosione dell’impero è un trauma collettivo, con esodi dolorosi. Le minoranze musulmane spazzate via da ex possedimenti turchi, che finiscono spesso al centro delle cronache belliche nel Caucaso, erano al riparo nell’Impero. Molti di loro hanno preferito aderire all’identità nazionale turca, quella della repubblica, etnicamente e linguisticamente definita. Una rimozione nello spazio pubblico della identità d’origine, per gratitudin. Ci sono identità che sono in sonno, invece, che sono in sonno, fino a riemergere nel tempo. Fino agli anni ’80, ad esempio, non esisteva un’identità alevita, nella politica erano di sinistra, marxisti-leninisti e altro. Quando il colpo di Stato ha chiuso quella fase, hanno recuperato quella dimensione religiosa, pur restando una parte importante della sinistra turca”.
Esclusione perenne: quando c’erano i nazionalisti, gli aleviti militavano nella sinistra radicale, ora che c’è un governo islamista, ritrovano la dimensione religiosa. “Rispetto agli aleviti, in dieci anni di governo Erdogan, qualcosa è cambiato”, spiega Salomoni. “Cambiati i testi scolastici, ci sono state aperture pubbliche, come quella di intitolare un’università della Cappadocia alla figura di Haci Bektas, figura chiave per gli aleviti. Come per altre comunità, anche per gli aleviti, Erdogan ha però vissuto una perenne contraddizione. Compiere passi verso la distensione, ma mai completi, attenti al calcolo rispetto alla situazione di consenso personale e del suo partito, mai in modo convinto. Rispetto agli aleviti, Erdogan e il suo partito hanno pregiudizi molto forti, ricambiati nello stesso modo. Gli aleviti hanno problemi a ridefinirsi: dagli anni Ottanta, ci sono anime molto differenti: alcuni si riconoscono nell’Islam, per altri non sono musulmani, ma un movimento culturale e filosofico. Anche per questa divisione non ottengono tutto quello che rivendicano. Queste rivendicazioni sono sostanzialmente lo statuto legale per le gemevi, i loro luoghi di culto, la seconda è quella più controversa, che riguarda lo statuto del direttorato degli Affari Religiosi, nato con la Repubblica per controllare la religione. Per gli aleviti più militanti, l’organo deve essere abolito, perché la laicità cui aspirano è quella francese, non il modello turco, dove la politica controlla la religione. Per altri, i più religiosi, l’identità alevita deve entrare nel direttorato con pari dignità. Al di là di queste divisioni tra gli aleviti, ogni apertura mostrata dal governo Erdogan, prima o poi, si ferma. Finisce per avere migliori rapporti con i non musulmani, in una repubblica laica tra virgolette, ma che promuove un immagine precisa dell’Islam: il sunnismo”.
Quello degli aleviti come ‘qunta colonna’ al servizio di potenze straniere è tornato a essere un non detto con i fatti di Gezi. Secondo i rapporti di polizia, il 78 per cento dei fermati erano aleviti. Un dato di fatto impossibile da dimostrare, ma che da l’idea di come il governo avesse voluto mettere un’etichetta su questo movimento.
“C’è una altro dato, più facile da verificare del precedente. Tutte le vittime degli scontri di un anno fa erano alevite. Se si rappresenta Gezi come un’esplosione avvenuta alla fine di un processo di esasperazione popolare contro norme del governo Erdogan, il terzo ponte sul Bosforo è stato di sicuro uno dei punti di svolta. Il presidente turco Gul e il premier Erdogan, alla cerimonia di inaugurazione dei lavori, hanno reso noto che il ponte sarebbe stato dedicato alla memoria di Sultan Selim II per i suoi grandi meriti militari. Il sultano è colui che difese l’Impero ai i confini attuali con l’Iran, fermando l’espansionismo savafide,. Tutti gli studenti turchi studiano che fu colui che vinse la campagna militare contro i savafidi, ma anche colui che tornando verso Istanbul massacrò decine di migliaia di aleviti, detti ‘teste rosse’ per il loro copricapo, in quanto collaborazionisti dei savafidi. L’annuncio del nome del ponte causò ana reazione enorme tra gli aleviti, la cui identità è costruita da eventi tragici, tra la battaglia di Kerbala fino alla tragedia di Sivas. In questo racconto, Selim II è uno dei grandi nemici degli aleviti. La decisione è stata presa con rabbia. Dall’inizio a Gezi c’erano striscioni chiarissimi in questo senso.
Nella grande massa degli oppositori di Erdogan, gli aleviti sono una maggiornaza forte, una colonna portante della protesta, ma senza un discorso pubblico sull’alevismo: quella protesta non ha portato a rivendicazioni alevite, nello spirito di Gezi, andando oltre le differenze. Erdogan e altri la hanno usata, accusandoli, ma io ho l’impressione che lo ha fatto limitatamente, rendendosi conto che era pericoloso. Ha preferito parlare di teppisti o perdigiorno, ha attaccato di più i kemalisti. Era evidente che gli aleviti erano fondamentali nella protesta, ma come per un consenso comune, si è evitato di caratterizzare in questo modo la protesta di Gez. Ed è stato saggio”.
Un elemento che sta acuendo questa distanza, in Turchia, è la guerra in Siria. Dove Erdogan, attento nel discorso interno a evitare attacchi diretti agli aleviti, non manca di richiamare costantemente l’idea di un fronte aperto tra sunniti e sciiti in Siria, dove lui, il suo governo e il suo partito si sono schierati apertamente contro Assad, proveniente da una minoranza alvita che domina un Paese a maggioranza sunnita.
“La guerra in Siria ha prodotto effetti su più fronti – spiega Salomoni – Il governo turco si è mosso in Siria, contro Assad, definendosi protettore dei sunniti. Questo ha prodotto come effetto di ridefinire il campo identitario degli aleviti in Turchia, che rendono Erdogan ancora più odiato. Gli aleviti turchi o curdi, che sono tanti, sono solo una parte. Principale, ma una parte. C’è alevismo arabofono, nella provincia di Hatay, che ha legami stretti coi siriani, mai percepiti dagli aleviti turchi come loro famiglia. Per ragioni fondamentali di un discorso etnico, per molti l’alevismo è un fenomeno turco, via vera dell’Islam. Anzi, per molti l’Islam arabo ha corrotto l’Islam turco. Una delle conseguenze dell’atteggiamento di Erdogan, è stato quello di compattare il campo alevita. Nella narrazione alevita, fatta di una memoria di persecuzioni, il governo di Assad ha rappresentato una storia di potere, di vittoria, e tutti gli aleviti percepiscono la sua caduta come una catastrofe”.
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