Pacchi africani

Il viaggio di un gruppo di profughi da Taranto a Milano. Trasportati come oggetti e abbandonati nelle stazioni di Anagnina e Rogoredo

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/04/sesana.jpg[/author_image] [author_info]di Ilaria Roberta Sesana. @ilariasesana. Classe 1981, alle spalle una laurea in Storia Contemporanea e un biennio all’IFG “Carlo de Martino”. Ama scovare storie, pezzetti di vita che permettano di raccontare e capire un po’ meglio la realtà che ci circonda. Collabora con Avvenire, Popoli, Jesus e Altreconomia.[/author_info] [/author]

12 giugno 2014 – Si può andare alla deriva sulla terraferma? In Italia sì. Perché nel nostro Paese può capitare che un gruppo di profughi (siriani, maliani, gambiani, sudanesi) venga caricato su degli autobus poche ore dopo lo sbarco e trasferito – nel volgere di una notte – in un’altra città.

Da Taranto a Roma, da Taranto a Milano. Scaricati alle prime luci dell’alba nei piazzali delle stazioni Anagnina (nella capitale) e a Rogoredo, periferia sud di Milano, dove nessuno sapeva del loro arrivo. Non hanno potuto fare una doccia, non hanno potuto riposare, non hanno potuto nemmeno cambiarsi i vestiti. Molti non avevano nemmeno le scarpe, i più fortunati un paio di ciabatte o le calze. A Milano martedì mattina sono arrivati due pullman con a bordo un’ottantina di persone. I siriani se ne sono andati quasi subito, raccontano i taxisti della stazione di Rogoredo. Gli africani invece hanno aspettato per ore un soccorso che – di fatto – non è mai arrivato.

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«Aiutateci, per favore. Non sappiamo dove andare. Ci hanno detto che ci avrebbero portato in un centro, e invece…». Desmond ha lo sguardo vuoto, stremato. Indossa ancora gli abiti impregnati di sale e sudore che ha indossato per giorni, durante la traversata dalla Libia e poi nella pancia della nave “Enea” che lo ha depositato a Taranto. «Ci hanno chiesto: Dove volete andare? Roma o Milano?. Poi la polizia ci ha messo sui bus e siamo partiti».
Un viaggio durato tutta la notte. Poi la desolazione, l’abbandono. Dalle sette di mattina e fino alle 17 (quando vengono finalmente trasferiti in Questura per presentare domanda d’asilo) i 43 giovani africani sono rimasti completamente abbandonati a sé stessi. Sotto il sole cocente. Il parroco del quartiere (che passava in stazine per caso) li ha visti e ha portato pane, acqua e qualcosa da mangiare, qualche ora dopo un passante due sacchetti di mele e altra frutta, un’anziana signora una busta di t-shirt pulite.
Col passare delle ore si scopre che è stato il Comune di Taranto – e non la Prefettura, come si era pensato in un primo momento – a organizzare il viaggio dei profughi verso Roma e Milano. «Lo abbiamo fatto per aiutarli – ha spiegato il vice sindaco Lucio Lonoce -. Ci hanno detto di voler raggiungere Milano e Roma e piuttosto che vederli partire tra stenti, alla spicciolata, abbiamo dato un’ulteriore prova di generosità, aiutandoli nel loro intento».

Peccato che nessuno si sa premurato di contattare le realtà del territorio per informarli dell’immimente arrivo: né il Comune, né la Prefettura, né le associazioni del terzo settore che operano sul territorio. A Roma come a Milano. Peccato che tutta l’operazione sia durata poco più di 24 ore, che a questi ragazzi non sia stato concesso nemmeno il tempo per una doccia e una bella dormita dopo cinque notti trascorsi nella pancia di una nave mercantile.

 

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E come si fa a decidere della propria vita in 24 ore, senza aver avuto la possibilità di farsi una doccia e una bella dormita? Come si fa a decidere della propria vita su un marciapiede rovente e a piedi scalzi?
Eppure a questi ragazzi sarebbe bastato un paio di scarpe per riconquistare, oltre alla dignità, anche un pizzico di libertà. All’arrivo degli uomini della Questura viene posta la domanda cruciale: «Volete chiedere asilo in Italia?». I volti sono perplessi, iniziano discussioni e conciliaboli sull’opportunità di accettare o meno la proposta. «Se solo avessi un paio di scarpe me ne sarei già andato», borbotta un ragazzone dallo sguardo stanco.
Anche lui ha seguito i suoi compagni di viaggio fino in Questura, ha impresso le sue impronte digitali su un foglio di carta e firmato un altro foglio in cui dice che sì, lui vuole chiedere asilo in Italia. Forse, se avesse avuto un paio di scarpe, avrebbe fatto un’altra scelta.

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