Il senso degli armeni per la storia. Continua con loro la galleria delle interviste alle varie anime della protesta di un anno fa a Istanbul
Il progetto delle voci del movimento Gezi Park sarà completato qui sul sito di Q Code Magazine, mentre interviste inedite saranno pubblicate sul prossimo numero de Il Reportage, nelle librerie dal 1 luglio prossimo.
di Christian Elia e Alessandro Ingaria
@eliachr e @aleingaria
13 giugno 2013 – “Siamo stati in piazza Taksim e al Gezi Park fin dal primo giorno. Il premier Erdogan, nelle prime ore dell’occupazione, ha detto che quella ‘gente’ non conosceva la sua storia, perché il loro progetto non voleva fare altro che ripristinare quello che era. Abbiamo subito diffuso una nota stampa, per far sapere a Erdogan che era lui a non conoscere la storia. Perché Gezi, fino ai cambiamenti, era un cimitero della comunità armena”.
Sayat ha un volto rassicurante. Lui è seduto, fermo, mentre il centro culturale armeno Hrant Dink gli corre tutto attorno, attraversato da mille attività. La sede del centro è in un palazzo stupendo, in una delle gallerie commerciali che si apre ai lati di Istiqlal, all’altezza del liceo Galatasaray.
“Questo centro è nato nel 2007, subito dopo l’omicidio del nostro Hrant”, spiega Sayat. Il giornalista turco-armeno Hrant Dink, assassinato nel 2007, dirigeva la rivista bilingue Agos. Freddato per strada, da un ragazzo minorenne all’epoca dei fatti. “Non abbiamo avuto giustizia. Hanno condannato il ragazzino, multando le autorità per non averlo protetto. Ma della rete che ha armato la sua mano – racconta Sayat – nessuno ha voluto capire nulla”.
“Hrant Dink, però, con la sua morte ha contribuito al risveglio della nostra comunità, quella armeno – turca. Io al suo funerale non ho pianto. Perché quel giorno ho visto anche la Turchia che vorrei: democratica, plurale, solidale, stretta attorno a valori comuni, al di là delle differenze. Quel giorno io e altri ragazzi come me hanno deciso di smettere di nascondersi. Ed è nato questo centro, che ha una radio che trasmette in 15 lingue, aperta a tutti i movimenti e le minoranze, che qui trovano un luogo da dove diffondere le loro problematiche”.
Sayat, poco più di trenta anni, è assistente universitario, si occupa di sociologia. Per il resto si impegna tutto il giorno nel centro, organizza assieme agli altri ragazzi del gruppo concerti, presentazioni di libri, corsi di lingua, cultura e cucina armena. “Noi siamo qui da sempre, da prima delle tribù turche in marcia dal’Anatolia”, racconta sorridendo. “Solo che la storia contemporanea di questo Paese ci rimuove. Tenta di cancellarci. E molti di noi hanno contribuito a questo processo. Padri, nonni, che per anni ti dicevano di vivere sottovoce, alcuni di noi avevano addirittura un doppio nome: uno armeno nel privato, uno turco nel pubblico. Per ripararsi da umiliazioni, a scuola o durante il servizio militare. Abbiamo detto basta, viviamo alla luce”.
Poi è arrivata Gezi. “Dal primo giorno dovevamo esserci. I gradini del parco sono fatti con quel che resta delle lapidi di marmo del nostro cimitero. Alcuni della comunità ci invitavano a stare nel parco, se volevamo, ma di farlo senza segni di riconoscimento precisi che ci indicassero come armeni. Per non avere problemi. Ma siamo stanchi e abbiamo rilanciato, ricostruendo una tomba simbolica, per raccontare alla gente cosa era quel parco e cosa è stato questo Paese. Pensate che era pieno di gente che giungeva al parco con le bandiere turche e si facevano le foto con il nostro monumento simbolico!”.
Non sarà stato facile, per voi, stare in piazza con le bandiere turche. Per un momento, all’inizio dell’insurrezione, per molti aveva i colori del nazionalismo kemalista. “No, non è stato facile. In un Paese che vessa le sue minoranze, la bandiera assume un significato particolare, prende il sapore della polizia e dell’esercito. Ma noi vogliamo superare tutto questo: se vogliamo cancellare i pregiudizi degli altri nei nostri confronti, dobbiamo fare lo stesso. Gezi ci ha insegnato questo, nulla sarà più come prima. Lo spirito di collaborazione, oggi, è un dato di fatto. Nel Paese, secondo me, siamo ancora minoranza. Ma noi ci siamo abituati, solo che oggi non ci sentiamo più soli”.
Quando ha vinto l’Akp di Erdogan, la prima volta, come lo avete vissuto? In fondo, per gli armeni, la fine del dominio dei militari o dei nazionalisti poteva essere una buona notizia. Anzi, andavano al potere persone che per le oro idee avevano conosciuto il carcere, la repressione.
“E’ vero, e l’abbiamo sperato. Solo che non è passato molto tempo e ci siamo accorti che in fondo non cambiava nulla. Anzi, se possibile, il monolite turco-sunnita si è rafforzato”, spiega Sayat. “Sarei ingiusto se non riconoscessi le differenze tra questo governo e la dittatura dei militari. Ma non è cambiato molto, salvo per un periodo nel quale importava l’Ue una serie di riforme di facciata. Ad oggi, nel 2014, solo un armeno è nella burocrazia di Stato e occupa un posto finanziato dall’Unione Europea. Ecco, difendere Gezi, significa difendere tutti i cittadini. Difendere l’idea che un governo lavora per i cittadini, di qualsiasi credo, orientamento sessuale, lingua e cultura. Gezi è la più grande lezione che questa società ha ricevuto da tanto tempo a questa parte. Non la dimenticheremo più”.