«Da domenica scorsa, come forse sapete già, Padova ha un nuovo sindaco, si chiama Massimo Bitonci ed è della Lega Nord». A parlare, in una calda mattinata d’inizio giugno a Padova, è Luca Bertolino, responsabile dell’associazione Razzismo Stop. Di fronte a lui sono almeno in sessanta, facce assonnate, occhiali da sole, canottiere di fortuna e accenti tutti diversi l’uno dall’altro.
Sono gli inquilini della casa dei Diritti “Don Gallo”, palazzina pignorata, recuperata lo scorso dicembre dai volontari dell’associazione per dare un tetto e un punto di partenza ai rifugiati nord-africani. «La maggior parte di loro è arrivata qui nel 2011, dopo gli orrori della Libia», spiega Luca, «per circa un anno e mezzo hanno vagabondato nei vari centri d’accoglienza, nel circuito emergenza Nord Africa, ma non è servito a nulla e alla fine del periodo di emergenza sono finiti per strada, di nuovo».
Per qualche mese hanno trovato un rifugio presso la sede dell’associazione, in via Gradenigo, ma lo spazio presto non è stato più sufficiente.
I volontari di Razzismo Stop hanno dunque deciso di accoglierli in questa struttura in zona Fiera, abbandonata da anni, e dare loro un sostegno che vada oltre il minimo garantito, seppure neanche questo sia ormai scontato. La palazzina, ex sede della Meeting Service Spa, è stata messa all’asta dopo il pignoramento con una base d’asta di 1 milione e mezzo di euro. L’associazione ha partecipato a suo modo, una lettera con dentro un biglietto. Sopra una sola parola, l’unica offerta che i loro volontari sono in grado di fare: l’accoglienza. «Un gesto simbolico per spiegare che non tutto può essere messo in vendita e acquistato e che il nostro lavoro ha un’utilità sociale rilevante».
«Abbiamo istituito un corso d’italiano», continua Luca, «e cerchiamo di farli lavorare quando è possibile». Nel cortile accanto alla palazzina, c’è chi lavora il legno, «abbiamo riciclato delle tavole e loro ne fanno mobili, divani e sedie sdraio che poi rivendiamo a commerci o privati» e alcuni di loro saranno inseriti nell’organico dello Sherwood, il festival che anima l’estate padovana. «Nessuno vi ha mai regalato niente», continua Luca davanti alla sua platea, «il vecchio sindaco non vi ha dato un lavoro, né una casa, ma il nuovo sarebbe felice di vedervi tutti in mare». Silenzio. «Però noi non abbiamo paura, dobbiamo restare uniti, rimboccarci le maniche, essere forti».
Tutti annuiscono ma è un consenso carico di tensione, che si sfalda facilmente. Soprattutto quando si parla della bolletta della luce, altro punto all’ordine del giorno. Il consumo degli ultimi due mesi degli inquilini della casa don Gallo è di 1.400 euro. La struttura occupata dai rifugiati è considerata come una seconda residenza, come una casa al mare. Le utenze sono intestate a Luca e la luce, quindi, costa il doppio e, se dovesse passare troppo tempo, una volta revocata, in virtù del nuovo piano casa Renzi, non sarà più possibile riallacciarla. Anche solo decidere chi sarà l’incaricato della raccolta dei soldi è non poco delicato. Si cerca di nominarne almeno tre, uno per regione nord-africana.
«Sono sempre i ghanesi a pagare», si grida da un lato del cortile e si fatica a placare gli animi. Ma questa è solo una delle tante possibili scintille che ogni giorno minano la tranquillità di casa Don Gallo. La convivenza di 60 persone, di origini e religioni diverse, non è facile. E, non sorprende, si conoscono tutti, ma nessuno ha amici.
Abdullah, 24 anni, originario del Ciad, è in Italia da qualche anno, ma è arrivato in via Tommaseo da pochi mesi. Parla italiano e ogni tanto lavora come cameriere: «i miei amici sono partiti, uno è tornato in Africa, l’altro in Germania», racconta, «io per ora resto qui ma la vita con tante persone così diverse è difficilissima».
Ha una nuvola di capelli ricci intorno al volto ed è l’unico elegante, in camicia, «se potessi andrei via anche io». Lo ritrovo dopo poco nella sua stanza, intento a stirarsi un paio di pantaloni sul pavimento. È in Italia da più di vent’anni, invece, Alassane, senegalese, 53 anni, il falegname della casa. Per non sbagliare, mi scrive il nome su un’asse di legno. «Qui cerchiamo di essere tranquilli», mi spiega, lui è il responsabile della sua stanza. «Ma basta un furtarello, una lite, si alzano i toni e ci si inizia a guardare con diffidenza», continua, «i senegalesi, però, pagano sempre le bollette».
I rifugiati della casa dei Diritti “Don Gallo” provengono dal Senegal, dal Togo, dalla Nigeria, dal Ghana, dal Mali, dall’Eritrea, dalla Libia, e da altri paesi dell’Africa sub-sahariana. Sono richiedenti asilo eppure, secondo lo studio sullo stato del sistema di asilo in Italia realizzato da ASGI, solo il 32,4% di loro trova un posto dove stare.
E, tra chi è finito a Padova, non sono in pochi quelli che volevano cercare fortuna altrove, oltre i confini italiani ma sono rimasti intrappolati nell’incomprensibile burocrazia europea. Secondo i dati anagrafici dello scorso mese di aprile, consultabili sul sito del Comune di Padova, i cittadini stranieri rappresentano il 15% della popolazione della città. A Padova ci sono 32.099 stranieri su un totale di 210.093 cittadini, oltre il 30 % dei bambini con meno di 5 anni è straniero e le tre principali comunità sono originarie della Romania, della Repubblica Moldova e della Nigeria. «Ridurli tutti, nell’opinione comune, a poche centinaia di spacciatori tunisini è ridicolo», commenta Nicola Grigion, giornalista e tra i responsabili del progetto Melting Pot Europa. Ma Padova, città a vocazione universitaria, accogliente di natura, sembra avvertire un’insolita emergenza sicurezza. Parola che è sulla bocca di tutti, soprattutto dopo le ultime comunali.
Il programma di Bitonci è tutto un risuonare di crescita, sviluppo e patrimonio. Ma, chissà perché, a mezzanotte passata in piazza delle Erbe, è un unico imperativo a risuonare all’ombra del palazzo della Ragione: “Ripulire la città”.
È quel verbo forse a disturbare di più. “Ripulire”, che dà l’idea di una gomma da cancellare passata sopra a tutto quello che infastidisce la gaia “patavinitas” della città.
Nei giorni precedenti il ballottaggio, il neo-sindaco è stato tra i politici più popolari sui social network, grazie a un uso frenetico di twitter e facebook dove, tra incoraggiamenti e narcisismo, è impossibile non riscontrare una certa ricorrenza nei contenuti: la promessa di appendere un crocifisso in tutte le aule della città, episodi di cronaca nera imputati casualmente a extracomunitari, l’arrivo di nuovi clandestini sul suolo italiano, il video “scioccante” di una lite tra immigrati vicino la stazione.
Un ritornello incessante che, si teme, diventerà parte della vita quotidiana qui a Padova. Tuttavia, le considerazioni a margine di questi risultati sono di altra natura. Passeggiando per le vie del centro, in questo inaspettato anticipo d’estate, ci si dispiace quasi che la terza città veneta possa mutarsi in una fortezza sorvegliata a vista. Il timore è che con il nobile e indovinato pretesto di preservare i piccoli commerci e l’economia cittadina si eliminino le zone a traffico limitato nel centro storico, argomento cardine di Bitonci, per permettere ai consumatori, la vera razza da preservare nell’era moderna, di arrivare in macchina fino alla soglia dei negozi. O ancora che quella “tutela del decoro e del buoncostume”, ripetuto nel suo programma, si traduca in un manipolo di ronde notturne di giovincelli annoiati. O che la “tutela assoluta della vita fin dal suo concepimento” favorisca un’attitudine medievale in tema di sanità e maternità a cui il Veneto, purtroppo, causa Zaia, era già abituato.
Bitonci, in materia di sicurezza, è preparatissimo, reduce dalle prove generali a Cittadella, comune della provincia di Padova, dove, nel 2007, in qualità di sindaco, ha introdotto quella che viene ancora ricordata come “l’ordinanza anti-sbandati”, una serie di procedimenti preliminari all’assegnazione della residenza anagrafica a un immigrato, come una soglia di reddito minimo, la verifica dell’idoneità dell’alloggio del richiedente e della sua pericolosità sociale.
Un’ordinanza simbolo dell’ancora più rigido pacchetto sicurezza le cui norme prevedevano un vigile ogni mille abitanti, ronde notturne garantite da volontari e divieto di bere alcoolici in aree pubbliche. Al quale va aggiunto, per onor di cronaca, la sua strenua lotta al kebab, simbolo della decadenza della tradizione culinaria veneta. Tutto per un piccolo comune di poco meno di 20.000 abitanti.
Un successone per Bitonci, lodato dai suoi colleghi più illustri, da Gobbo a Treviso a Tosi da Verona. Tuttavia, l’aver inserito una soglia di reddito (fissata intorno ai 420 euro) in uno dei pochi paesi d’Europa dove non è neanche previsto un salario minimo, ma soprattutto l’essere entrato in un campo di competenza del governo e non di un sindaco, suscitò il disappunto nazionale e Bitonci fu indagato per abuso di funzione pubblica. All’indomani della sua elezione a Padova, c’è tuttavia chi invoca una ricetta Cittadella anche per il capoluogo veneto.
«Questa non è una vittoria di Bitonci», spiega Luca, «ma è la sconfitta della sinistra, Ivo Rossi che non ha saputo vincere». La stessa persona che ha votato Bitonci, secondo il responsabile dell’associazione, potrebbe appassionarsi alla storia personale di un immigrato incontrato per strada, ma quando ci si trova in un’urna entrano in gioco altri fattori.
Lui e Nicola Grigion sono convinti che, purtroppo, abbia prevalso la logica dell’originale preferito alla brutta copia: «dopo vent’anni di sinistra, la città vuole cambiare e Bitonci è stato l’unico a proporsi come cambiamento». Padova non è più rossa, quindi, e forse non lo era già da un po’. Da quando, precisamente, a meritarsi l’epiteto di “sceriffo”, è stato un sindaco di sinistra: Flavio Zanonato.
L’episodio del muro di via Anelli, una recinzione lunga 84 metri e alta 3, soluzione escogitata dalla giunta di sinistra per isolare una zona di spaccio popolata prevalentemente da immigrati extracomunitari, è ancora vivo nella memoria di Padova.
«L’amministrazione Zanonato ha voluto dare il bastone e la carota, il muro di via Anelli e blande politiche d’integrazione, come per dire, vi accontentiamo e isoliamo gli immigrati in un ghetto ma siamo pur sempre di sinistra», spiega Nicola, «alla fine, l’integrazione non è avvenuta, la città è ancora in difficoltà e i padovani hanno deciso di votare a destra». Sul risultato delle elezioni pesa inoltre la figura di Ivo Rossi, soprannominato dai seguaci di Bitonci “Ivo il Tardivo”, non eletto regolarmente attraverso il voto, ma succeduto a Zanonato, che ha abbandonato Padova per la carica di Ministro dello Sviluppo Economico nel governo Letta e in seguito per la corsa al Parlamento Europeo. A lui gli elettori di sinistra, delusi, tra i quali non pochi hanno votato Bitonci, imputano la colpa di non aver saputo portare la campagna elettorale su altri temi che non fossero la sicurezza.
Incapacità sulla quale ha inferto l’ultimo colpo, forse involontariamente, anche Il Mattino, quotidiano padovano locale, principale organo di propaganda del candidato renziano, «tra i principali responsabili della vittoria di Bitonci» secondo Luca, poiché da un lato ha screditato con ogni mezzo il neo-sindaco leghista ma dall’altro ha alimentato l’isteria collettiva per la sicurezza cittadina.
Infine, il recente scandalo del Mose, nel quale era coinvolto anche Galan, amico di Rossi, ha instillato il dubbio in non pochi elettori padovani, ma soprattutto diffuso il pericolosissimo adagio secondo il quale “ormai sono tutti uguali” e tra un tardivo e un leghista non valga nemmeno più la pena di scomodarsi e recarsi al seggio.
Ora resta un senso di imbarazzo generale, una vittoria temuta ma inaspettata, le due bottiglie di prosecco chiuse e dimenticate nella sede del Pd a due passi dalla Galleria Borromeo, in piazza Insurrezione, l’ironia sui social network, dove venerdì 13 giugno tutta la cittadinanza è invitata a mangiare un ultimo kebab.
Ma, soprattutto, si fa sentire la necessità, finalmente, di creare una vera e solida opposizione a sinistra. «In realtà non è detto che le cose possano andare peggio – continua Luca – con una giunta della Lega, chissà che proprio un fronte comune a cui opporsi non faccia rinascere una sinistra più compatta».
È quanto Luca ha anche cercato di spiegare ai ragazzi questa mattina, durante l’assemblea generale. Ma i commenti sono stati pochi, per lo più qualche battuta. «Tu da dove vieni?», dice un rifugiato a un volontario dell’associazione, «di Trento? Allora Bitonci ti manda a casa! Via gli stranieri!», scherza. «Alcuni sono arrivati da poco in Italia, per loro non cambierà nulla», conclude Luca. Hanno attraversato il Mediterraneo, perso la speranza, imparato una o più nuove lingue, cercato di ricostruirsi una vita, una o più volte. Un “sindaco di tutti”, con le sue lotte personali contro il kebab e il capriccio di fare dello Spritz una bevanda verde Lega, sembra non intimorirli più di tanto. Almeno per ora.
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