La vittoria del FN vista da Parigi

Come in cronaca di una morte annunciata. Tutti sapevano che sarebbe arrivata, però nessuno s’aspettava che succedesse sul serio

 

Bruno Giorgini, da Parigi

 

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16 giugno 2014 – La vittoria svettante di Marine Le Pen, la vague bleu Marine. Per questo le persone con cui parlo appaiono tutte un po’ stranite. Ma l’onda ha sommerso la Francia, e abbiamo l’acqua del FN fin sotto il naso – chiedo – oppure semplicemente la patria della Rivoluzione Francese – Libertè Egalitè Fraternitè – e della Comune, il Comune da cui viene comunismo – è un po’ allagata e l’acqua melmosa sta soltanto (si fa per dire) alle caviglie. Tendendo a salire oppure rifluirà in fretta? Basteranno dei socialisti un po’ più svegli – quelli odierni sono particolarmente tonti a cominciare dal capo che sta all’Eliseo – o il FN è espressione politico partitica di movimenti che scavano nel profondo della società, scaravoltando valori e aggregazioni, comunità e coscienze individuali. Però magari è un’illusione ottica, uno strabismo, una malattia di stagione, un fraintendimento dei cittadini.

Comunque sia faccio inchiesta tra le amiche e gli amici, i compagni e le compagne che incontro e ascolto in giro per Parigi là dove lavoro, là dove mangio, là dove passeggio. Tutta gente di sinistra, più o meno militante, specie nel sindacato, quasi tutti/e lavoratori della conoscenza, qualcuno/a della mia generazione, quelli del ’68 ormai vetusti, poi scendendo fino ai più giovani.

Non è una ricerca con pretese scientifiche neppure alla lontana, solo una collezione di piccole storie che raccontano percezioni, sensazioni, arrabbiature, disillusioni e quant’altro, anche qualche segno di non dico ottimismo ma lotta contro la depressione individuale e collettiva. Per l’intanto tutti in primis mettono le mani avanti, un modo per attutire il senso di colpa, forse.

Infatti, dicono e ribadiscono, a Parigi il FN è rimasto al palo del 9% e, sottinteso, si sa Parigi è la Francia. Sarà, ma se in Parigi il FN è al 9% – che non è proprio un niente trascurabile – vuol dire che ci sono posti dove ha largamente superato il 30% arrivando almeno fino al 40%, numeri che fanno una certa impressione, seppure in provincia come i parigini chiamano il resto di Francia, finanche Marsiglia.

Poi entra in ballo la grande astensione, che però non giustifica, anzi è un’aggravante dico. Se molti di sinistra non sono andati a votare, pur conoscendo il rischio della vittoria lepenista, allora chi è causa del suo male pianga sè stesso – ma l’Europa, l’UE, «è uno schifio che vuole il massacro sociale», mi dicono di fronte al giornalaio due anziani del PCF, quindi non votarono, e di Melanchon, il leader del Front de Gauche, di cui pure il PCF fa parte, non si fidano “mica per niente viene dal PS” – Front de Gauche che è arrivato a un magro 6% e qualcosa, quindi adesso dilaniandosi secondo le migliori tradizioni della sinistra.

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Di tutto questo e altro ancora discuto con un vecchio amico quadro della GGT, la CGIL francese, pranzando con lui , sua moglie e i suoi due figli in una libreria alternativa nel Nord di Parigi. «Guardando superficialmente il programma FN è pieno di obiettivi “di sinistra” contro le delocalizzazioni, contro lo strapotere della finanza, della BCE del FMI della CEE, contro l’euro che è il marco».

In ultima analisi gli operai votano FN «perché sono incazzati neri e non ne possono più della crisi. Aggiungi che Marine Le Pen e i suoi parlano con e ai lavoratori, cosa che il PS non fa più ormai da un decennio almeno».

Però il sindacato non sta con le mani in mano. È nato un collettivo intersindacale “antifascista”, composto da CGT, SUD (qualcosa come la nostra USB), FSU (la Federazione dei lavoratori pubblici, insegnanti e ricercatori compresi) e UNEF, il sindacato studentesco, pubblicando un libro “Pour en finir avec l’extreme droite”.
Ma l’antifascismo più o meno militante è in larga misura spuntato perché Marine Le Pen è riuscita nel miracolo di trasformare il FN in un partito appetibile e presentabile anche da parte di cittadini diciamo così “normali” – legge e ordine per capirci ma con le elezioni – senza mutare la sua natura profonda come forza di estrema destra, ovvero tenendo dentro il giornalista iscritto alla CFDT e il capo dei naziskin con la svastica tatuata sul braccio.
Una metamorfosi, quando cambia la forma ma il DNA resta invariato. Tra l’altro la Francia non ha conosciuto il fascismo come organizzazione di massa a un tempo egemone nella società e di governo nello stato. Il petainismo fu altra cosa, una forma di compromesso con i nazisti occupanti per salvare la alta borghesia nazionalista reazionaria.

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Viceversa, e in modo solo apparentemente contraddittorio, qualcuno mi dice: «i giovani? Certo hanno votato Le Pen. Perché? Perché vogliono fare la rivoluzione», e son guai grossi quando sembra che la possibilità di un cambiamento radicale viva soltanto nell’estrema destra.
Comunque il mio amico CGT ci tiene a darmi qualche buona notizia. Recentemente gli operai di Fralib, un’azienda alimentare del Sud dintorni di Marsiglia, dopo 1336 (milletrecentotrentasei) giorni d’occupazione hanno potuto costituire la loro cooperativa di produzione mentre il giudice del lavoro condannava Unilever, Lipton e Elephant a pagare circa 29 milioni di euro per violazione della legge, soldi che sono andati a costituire il capitale iniziale per l’autogestione. Lo stesso hanno fatto i lavoratori della “Fabrique du Sud” costituendo la Scop a Carcassonne. Qualche altro esempio qua e là, ma la questione è: alcuni di loro avranno votato per Le Pen? Stando alla statistiche non si tratta di una domanda provocatoria, anzi.

«Ma sai, ormai non c’è più educazione politica in fabbrica e nei luoghi di lavoro. Anche in CGT abbandonato il modello del sindacato come cinghia di trasmissione per il partito, in sostanza il PCF, non c’è più niente, la politica non abita più qui». D’altra parte lo stesso Marx ha scritto da qualche parte che in assenza di coscienza di classe – Marx intende coscienza di classe “rivoluzionaria” – i lavoratori manuali sono facile preda dei reazionari, e così Marcuse spiegava nel ’68 il fatto che i lavoratori edili, i muratori, fossero il ferro di lancia contro le manifestazioni studentesche per la pace in Vietnam, picchiando in nome della Nazione i giovani “nullafacenti e disfattisti”.

A pranzo con noi c’è anche la moglie insegnante in un liceo, nonché attivista sindacale che ha inventato “L’ecole depouillé”, la scuola spogliata, un calendario dove i professori si esibivano vestiti soltanto di libri, cartelli di protesta, brevi manifesti per la scuola pubblica, ottenendo un successo straordinario sul piano nazionale e traversando addirittura l’oceano per approdare negli USA. Ma qui ci interessa su un altro versante, la sua appartenenza alla comunità ebraica, per ora a quel che ho potuto vedere, l’unica seriamente preoccupata per la crescita del FN, e non a caso Marine Le Pen si sforza di negare l’antisemitismo come costituente il FN, fino a sconfessare il suo vecchio padre Jean Marie.

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L’anziana mamma di un altro amico la sera delle elezioni gli telefona chiedendo molto preoccupata: pensi che dobbiamo rifare la valigia e prepararci a partire di nuovo, ricominceranno le persecuzioni? Seduti a un caffè in Place Edith Piaf, sempre Parigi Nord, gli pongo le solite domande cui risponde semplicemente “ma guardati intorno”, indicandomi le molte persone in abiti palesemente “arabi” e/o maghrebini e/o mussulmani, a cominciare dal velo che portano le donne.

Non usa la parola “invasione”, però è chiaro che pensa qualcosa del genere, uno degli argomenti principe di Marine Le Pen. Certamente non è razzista anzi tutt’altro, ma si riferisce a una sorta di stato di necessità “sociale”, di contraddizione materiale che nutre il successo della politica del FN.

E poiché siamo al Nord e nell’ambito della comunità ebraica, un’altra amica dal cognome importante di quelli che hanno fatto la storia, con un figlio dalla doppia nazionalità, francese e italiana, racconta. «Sai mio figlio cui la maestra il primo giorno ha chiesto di quale nazionalità fosse, ha risposto: italiano. Allora gli ho chiesto perché, perché non ha detto che è francese. E lui: ma mamma sarei stato l’unico, non c’è nessun francese tra i miei compagni di classe. Capisci, si vergogna di esser francese. Si sente a disagio a scuola.Per lui è meglio essere straniero, eppure è nato, e sempre vissuto, qui».
Quindi la mia amica, tra l’altro una che fu sulle barricate del Maggio, mi porta a fare un giro “turistico” nel suo quartiere, intorno a Porte de Glignancourt. «Qui stava un salumiere, adesso c’è una macelleria kasher tenuta da mussulmani, qui un barbiere francese adesso un negozio da parrucchiere cinese, per trovare una drogheria coi prodotti della nostra terra (du terroir come dicono qua), devo prendere l’autobus, anche il formaggiaio è evaporato chissà dove eccetera eccetera eccetera. Soltanto il fornaio è rimasto franco francese, piegandosi però ai dolcetti maghrebini, mentre tutti i ristoranti propagandano il miglior cous cous, del mondo, della città, quello che non lo mangi così neppure in Marocco o in Algeria. Non che non mi piaccia il cous cous, ma ogni tanto anche la cucina francese non farebbe male, qua è del tutto scomparsa».

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Già che siamo a Porte de Glignancourt prendo il metrò per Porte d’Orleans, dove provvisoriamente abito. La linea attraversa tutta la città da nord a sud, è molto frequentata, standoci sopra si percepisce materialmente in corpore vivo, per così dire, la transizione tra un quartiere e l’altro, tra una popolazione e un’altra: dai bianchi franco francesi e/o europei di serie A, il signor Dumas e il signor Rossi o Hubermann che salgono a Porte d’Orleans fino alla rive droite, si sfuma poi ai colori più intensi, dalle ragazze in minigonna alle signorine col velo, dai neri eleganti a quelli dall’aria incazzata, dai jeans firmati a quelli stracciati, sul serio non per fighetteria, cambiano i colori gli odori i profumi gli abiti, il modo di stare in piedi, quello di star seduti, gli strilli dei bambini e lo stile dei passeggini, le lingue e i toni di voce, come si sale e come si scende dalle carrozze. Una cosa però è comune a quasi tutti/e, l’iphone, lo smart phone, il black berry e quant’altro nel campo degli strumenti ICT (Information Communication Technology) cui stanno appesi.

Ancora fino a qualche mese fa resisteva qualcuno/a con un libro in mano, fino a un anno eravamo in molti, oggi sono l’unico in una settimana di viaggi nella città sotterranea. Fino a qualche mese fa era persino possibile parlare con un vicino di posto, o sorridere a una bella ragazza sperando che ella ti ricambiasse, almeno se ne accorgesse, adesso proprio nè ti vede nè ti sente. Oggi ognuno/a sta rinchiuso nella sua bolla ellettromagnetica, ogni connessione di prossimità sul vagone appare interrotta, sembrano, forse sono, tutti/e autistici, la lingua umana tra vicini appare bandita, così come una qualunque relazione sociale impossibile.

Chissà forse anche questo autismo di massa contribuisce alla vittoria del FN, che ti ridà una identità razzista, xenofoba, nazional nazionalista fino a fascista, ma corposa. Già che siamo in metrò usiamolo come metafora analogica per spiegare quel che fin qui abbiamo capito. Sia per la crisi che per le misure prese dal Comune onde ridurre il traffico privato urbano, il numero di utenti dei trasporti pubblici è assai aumentato, qualcuno dice fino al 20% e oltre. La maggior parte di questi si riversa nel metrò. Questo incremento provoca parecchi guai e difficoltà.

La folla aumenta ma lo spazio disponibile dei marciapiedi d’attesa non può crescere, cosicchè si sta sempre più pigiati, anche al di fuori delle ore di punta. Per far fronte alla folla cercando di diradarla, sopra una certa densità è facile che si inneschino reazioni di panico, la RATP, l’azienda che gestisce la subway, è obbligata a aumentare la frequenza delle corse: mentre l’intervallo temporale tra un treno e l’altro era di circa tre/quattro minuti, adesso diventa di due, o a volte, addirittura di un minuto, al limite della soglia di sicurezza.

Però questo aumento delle frequenze e del numero di corse non è indolore, aumentano le probabilità di sfasature e difficoltà tecniche fino ai veri e propri guasti, per cui può capitare che un treno si fermi in galleria, in attesa, a volte lunga, di avere la precedenza e/o il via libera, oppure si rompa qualcosa e quindi alla stazione successiva, dove si arriva a passo di lumaca, bisogna aspettare un nuovo convoglio mentre le persone si accumulano. A me in una settimana capita ben quattro volte sulla linea Porte d’Orleans – Porte de Glignacourt, prima mi sarà successo due o tre volte, in anni, e bisogna sapere che trattandosi di una rete, una interruzione e/o sfasatura su un ramo rischia sempre di ripercuotersi sull’intero sistema.

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Così nelle carrozze si è sempre più accatastati, sempre più ci si spinge, si cozza l’un contro l’altro, il tuo vicino diventa il tuo “oppressore”, il nervosismo sociale aumenta, scendere e salire diventa difficile, a volte una prova di forza a gomiti e spinte, mentre i tempi si allungano e i disagi aumentano. Adesso supponete che sul treno salga qualcuno dicendo: per tornare all’antico comfort non c’è che una soluzione, lasciare qualcuno a terra. Questo qualcuno saranno “i bianchi” o “i neri” o “quelli che portano le scarpe gialle” o quelli “col cappello o senza”, insomma una qualche categoria, in Francia per antica e radicata cultura nazionalista e coloniale, quasi naturalmente gli stranieri, gli immigrati, quelli del Maghreb, i mussulmani, gli arabi, gli africani, c’è ampia scelta, e questa idea mi pare molto diffusa anche in persone insospettabili di razzismo.

Poi si può andare dal metodo drastico vietando l’accesso manu militari a una intera categoria del tutto escludendola, buttandola fuori dalla città sotterranea, a quello più capitalistico borghese di aumentare di molto il prezzo del biglietto per quella categoria spingendola a farsi da parte per mancanza di soldi, a quello più attento alla tolleranza, tollerando che un paio di vagoni in ogni treno le siano riservati stando molto attenti che rispettino questa disciplina, e chi sgarra finisca in cella, ci mancherebbe altro che si violino le regole della tolleranza. Infine gli umanitari buonisti che rivendicano per gli inclusi/reclusi nei due vagoni terminali la gratuità dell’accesso. I vagoni poi si sa possono diventare da due uno, e si discuterà democraticamente, decidendo magari con un referendum, dove gli esclusi ovviamente non potranno votare.

Più o meno così trascorre da destra a sinistra il panorama politico francese, con la novità del FN in formato Marine Le Pen. La signora della politica francese non sceglie una delle proposte prima dette, lei spazia dall’una all’altra a seconda delle circostanze e degli interlocutori, per cui prende voti su ogni fronte, tanto la sostanza non cambia: bisogna escludere dall’accesso alla città, la polis, nella nostra metafora sotterranea, una quota della popolazione, e su chi debbano essere, anzi chi già siano, molti, forse la maggioranza, convengono.
In questo senso il FN si sta costruendo come un partito a vocazione maggioritaria, e chi pensasse trattarsi di un fuoco di paglia, sbaglierebbe alla grande. Soltanto se si inventerà, progetterà, metterà in atto una nuova e diversa mobilità capace di essere a un tempo egualitaria e confortabile, una nuova alternativa polis sotto e sopra terra – il discorso sarebbe lungo e non certo facile- si potrà uscire dall’oscena dialettica tra inclusione e esclusione, oggi cavalcata, anzi in larga misura governata dal FN.

Infine quando esco dalla sotterranea mi imbatto in un corteo di cattolici integralisti che manifestano contro la scuola pubblica e l’educazione sessuale. Sono molti assai, e giovani, le ragazze ostentando grandi croci sui petti scollati, i giovanotti gridando slogan Dio Patria e Famiglia, eccoli un’altra componente della vittoria di Le Pen che non avevo considerato, ma lì mi pare evidente. A consolarmi rimane sotto casa un piccolo accampamento di sdf – senza fissa dimora – simpatici che hanno piazzato tre tende sul marciapiede accanto al muro di una banca dismessa causa crisi, o ruberia, chissà. Non è proprio occupy wall street, ma in certe giornate ci s’accontenta.

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