Il centro sociale Don Kisot. Ultima delle interviste alle varie anime della protesta di un anno fa a Istanbul
Interviste inedite saranno pubblicate sul prossimo numero de Il Reportage, nelle librerie dal 1 luglio prossimo
di Christian Elia e Alessandro Ingaria
@eliachr e @aleingaria
17 giugno 2014 – “Guardati attorno; se cerchi un modo di vivere che si avvicini a tutto quello che abbiamo sognato, programmato, elaborato nei giorni dell’occupazione di Gezi Park lo trovi qui”.
Kadin, ambizioni da regista e sceneggiatore, è in continuo movimento, saltellando a destra e a sinistra nell’atrio del centro sociale Don Kisot (Don Chisciotte), un palazzo a tre piani, dove l’abbandono cede il passo ogni giorno di più alla vita che ritorna.
L’edificio si trova nella parte asiatica della città, nella zona di Kadikoy, in una delle strade che partendo dal mare si inerpicano sfidando la forza di gravità sulle colline. La zona viene chiamata Yeldegirmeni (mulini a vento). “Anticamente qui c’erano delle macine”, spiega Kadin. “Il nome ci è parso naturale: questo edificio abbandonato da venti anni è per sognatori, ma pragmatici. Ecco, un esercito di Sancho Panza. A Don Kisot, abbiamo dedicato il contenitore”. Alle vittime di Gezi, invece, sono dedicati i grandi stencil che rivestono l’edificio, con i volti di tutti coloro che hanno perso la vita negli scontri con la polizia.
L’occupazione è nata a settembre dello scorso anno, proprio dopo la lunga estate calda di Gezi. “Questo è il primo atto di occupazione di uno spazio abbandonato da molti anni a Istanbul. Prima del movimento di Gezi c’erano state delle occupazioni, ma erano legate al lavoro in fabbrica, in un periodo turbolento di proteste prima del colpo di Stato degli anni Ottanta. Da allora niente, mai addirittura con una logica di riappropriazione di uno spazio pubblico. Né squat, né centri sociali. Non c’era questa cultura. Alcuni di noi hanno praticato in Europa, dopo Gezi abbiamo iniziato. Con la logica dell’occupazione: questo posto, abbandonato da venti anni, è di tutti, di nessuno. E’ mio, come è di tutti, senza padrone, con tutti i padroni che portano qui un’idea”.
Come vi ha accolto il quartiere? “All’inizio siamo entrati in una dozzina, molti dei quali, me compreso, vivevano già qui. Le persone ci conoscevano e hanno solo preso a chiederci che facessimo”, spiega Kadin, mentre allo stesso tempo risponde a mille altre domande, riceve e porta altrove oggetti.
“C’è stata una parte della popolazione locale che ha solo apprezzato che dopo anni un posto sporco venisse ripulito, un’altra parte invece si è fatta contagiare, capendo che non è un luogo dove venire a chiedere qualcosa, ma dove portare idee e realizzarle. Un altro gruppo ancora, poi, ha opposto resistenza e continua a farlo. Di base per il problema dell’alcool. Noi abbiamo tenuto una linea del dialogo: per esempio si chiude alle 23, a parte per coloro che ci vivono, per non turbare la quiete delle famiglie. E per l’alcool abbiamo impostato il confronto su un livello socio-politico, non religioso. Parliamo dei danni dell’alcool, mi sta bene. Ecco, questo è l’approccio”.
Senza essere pessimisti, pare un miracolo che le autorità vi abbiano lasciati tranquilli per quasi un anno, visto come trattano le manifestazioni di piazza. “Sono venuti, figurati, già nei primi giorni. E sono certo che, vestiti in modo differente, continuano a venire ogni giorno”, risponde sorridendo con un o sguardo d’intesa sotto il casco di riccioli neri Kadin. “Ma non hanno nulla da usare contro di noi. Certo, c’è l’ingresso in questo luogo, ma non c’è un proprietario che mette pressione. Detto questo, sono sicuro che prima o poi qualcosa accadrà, ma andremo da un’altra parte. Ormai il senso di Don Kisot, il seme dell’idea, ha preso. Non ci preoccupiamo di perdere cose materiali: le abbiamo costruite con le nostre mani, lo faremo di nuovo. Quello che è importante è quello che abbiamo praticato qui dentro”.
Quali attività? “Uno stile di vita, direi, declinato in mille attività differenti. E’ evidente che molte delle idee su cui ci siamo confrontati a Gezi prima e nei forum dopo le abbiamo portate qui dentro. Perché sia un laboratorio di stili di vita alternativi, che passano da una diffusione di arti non convenzionali, fuori dagli schemi commerciali, fino alla pratiche di energie alternative, allo studio condiviso dell’economia e della legge, per condividere saperi e organizzare resistenze.”, spiega Kadin, mentre mostra fiero un forno. “Questo lo abbiamo costruito con i suggerimenti di un ragazzo che viene dalle montagne, dove la sua comunità riesce a scaldarsi, scaldare l’acqua e cucinare solo con l’uso intelligente di una fonte di calore naturale. Ora tutto il palazzo è in rete con questa stufa. E’ una piccola cosa, ma sono le rivoluzioni dello stile di vita quelle che contaminano il reale”.
Senza essere scettici, guardandosi attorno in quello che ha tutta l’aria di un quartiere popolare, non deve essere facile comunicare con tutti qui. “Non ho detto che lo sia. Ecco, se mi chiedi una delle difficoltà di questa esperienza è stata proprio l’idea che per molti esiste solo la cultura che viene portata nelle case dai mezzi d’informazione di massa. La cultura alternativa non viene capita, non viene accettata subito, ma siamo riusciti a farla rispettare. Il resto deve venire in modo naturale”.
Un po’ come per Gezi. “Esatto. Un anno fa abbiamo capito tutti che esiste un grande spazio di manovra politico. Uno spazio nuovo, perché eravamo tutti abituati ad agire in gruppi, che erano poi quelli di appartenenza. Anche i più progressisti tra noi, magari rendendosene poco conto, lo facevano. Oggi questo è superato: la contaminazione, la condivisione, la progettualità si sono attivate. E’ un processo lungo, che avrà fermate e riprese, ma è partito. Questo luogo è frutto di quella cultura, di quelle giornate, di quei sogni. Siamo qui per andare avanti”.
C’è chi vi ha emulato in città? “Certo, per chi ha iniziato al Don Kisot era fondamentale che iniziasse in città un meccanismo di prossimità culturale con la nostra iniziativa. Qualcosa si muove a Beisktas e altrove. Un ribollire di iniziative piccole, locali, territoriali. Che faranno rete, ma che rappresenteranno spazi vissuti, comuni. Perché questo è il senso: noi siamo i nostro governo, nessuno può sapere meglio di te quello che ti serve. Il governo deve rispettare i suoi cittadini, lavora per loro, non può minacciarli, ucciderli, solo perché protestano. Abbiamo un posto dove fare quello che vogliamo, dove immaginare e praticare una città differente, dove un luogo abbandonato torna a vivere”.