Un’ora di tempo e un raggio di un chilometro per esplorare Make Music Milan, l’iniziativa che ha portato la musica nelle strade e nelle piazze di Milano ieri, primo giorno d’estate. Alla ricerca dell’anima di Milano, del senso politico di fare musica e del potere contagioso del sorriso.
di Enrico Sibilla
@succo_gastrico
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui,
l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono
per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte
fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e
apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno,
non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.” (Italo Calvino, Le città invisibili, 1972)
Chiunque conosca bene Milano, o ne sia segretamente innamorato, ve lo dirà: bisogna insistere, non smettere mai di cercare. Servono ostinazione e fortuna per trovare il punto giusto in cui forarle la scorza nera e carotarle l’anima, portarla in superficie, rivelarla. Certo ci vuole fiducia, con una giusta dose di forza, e bisogna credere che ci sia, un’anima, dentro Milano.
È sabato tardo pomeriggio, ed è il primo giorno dell’estate dell’anno 2014. Il sole in zona Garibaldi è un sole impuro, reso tremulo dal riverbero del carburante combusto eppure nitido e potente per i riflessi che danno le pelli sovrapposte dei troppi grattacieli, tutti nuovi eppure già vecchi nelle loro linee fine millennio. Sono palazzi in gran parte vuoti, buoni per le sigle dei talent e le pubblicità delle banche; hanno preso il posto di intere vie, che invece erano buone per le vite che ci crescevano dentro. Hanno punte profili bagliori così invadenti che li vedi e riconosci ovunque ti trovi: se percorri un viale lontano chilometri, se sfrecci su un cavalcavia in tangenziale, se bevi uno spritz in balcone. Li guardi e sai che sotto di essi il quartiere (lo chiamano Porta Nuova, ma per tutti qui è l’Isola che non c’è più) è un luogo dove c’era l’erba e ora c’è una città. Mi muovo con questo sole alle spalle, la fronte al Duomo che non vedo ma so che è lì, e vado, cammino.
Mi sono dato un tempo e uno spazio: un’ora e un chilometro di raggio. Voglio capire cos’è questa giornata dedicata alla musica da strada, questa cosa così poco simile a Milano, questa scommessa che chiunque darebbe per persa. Make Music Milan. Fai musica Milano. Penso: ma come si permettono di dare un ordine, o anche solo un consiglio, a questa città? Milano fa quello che le pare, e non accetta suggerimenti. Ecco perché il mio chilometro di raggio è qui, in corso Garibaldi, nel centro esatto e mobile della Città Nuova, il luogo dei grattacieli e delle trattorie, del business e degli aperitivi. Qui Milano è più Milano che altrove, qui è moderna, spietata, qui mostrando la sua faccia pulita rivela il suo cuore sanguinario. Qui Milano vince sempre.
Eppure.
Eppure c’è qualcosa che accade, persino qui, nonostante qui. Cammino, e li trovo, e li ascolto, questi musicisti che si sono presi la responsabilità di gestire e animare una piazza, un incrocio, un angolo d’ombra con la propria musica. Ma prima di tutto li osservo, e la prima cosa che scopro è che sono tutti diversi. Nella città dei trend e delle tendenze sono tutti eccezioni. E non sono solo le musiche che suonano: sono le facce che portano, sono i vestiti che indossano e sono i gesti e i movimenti che compiono. Ognuno di loro sembra avere una propria grammatica, imparata o forse scritta nel proprio tempo personale e intimo e, pur essendo le postazioni spesso a pochi metri di distanza, nessuno di essi sembra in conflitto con l’altro. Si alternano fluidamente, si passano un testimone che muta miracolosamente a ogni scambio.
All’angolo di via San Simpliciano, Pascal Art canta i Beatles accompagnandosi con la sola chitarra: è un busker come ne esistono a milioni, eppure qui oggi è “Il Busker”, l’archetipo e il suo compimento. Canta e sorride, sorride in continuazione, e i passanti si fermano, gli riempiono l’astuccio di monete. Lui li ringrazia, e sorride, sorride, sorride.
A pochi passi da lui i Folk Yeah!, un quartetto folk di tre giovanissimi variamente barbuti e una gentile pestatrice di cajon, hanno avuto l’ardita idea di portare Guccini e De Andrè a pochi metri dai templi piccolo-borghesi dell’happy hour. Il contrasto c’è, è ovvio, ma è vivace e generoso e pacifico. E sorprendentemente, i milanesi in Ralph Lauren che conoscono a memoria Fiume Sand Creek sono molti di più di quanti uno potrebbe verosimilmente sperare.
Il contrasto non potrebbe essere più netto quando mi sposto davanti alla chiesa dell’Incoronata: qui la musica si fa torbida, elettronica e vintage, con il dj set anni Ottanta di Nico e DJ Fabri. Il volume è alto, vibrano i vetri dei negozi, e la gente balla, mischiandosi ai fedeli che escono dalla messa delle sei. Anche qui mi colpiscono i sorrisi, non di chi balla, ma di chi si esibisce. C’è un’euforia sottesa, un’allegria fisica, che è comune a tutti i performer che ho incontrato finora. Mi ripeto che sarà l’estate, sarà la birra, saranno le basse dei Kraftwerk che ti spostano gli organi interni. Me lo ripeto soprattutto perché inizio a non crederci più nemmeno io.
L’epifania accade in piazza XXV Aprile. Qui è dove hanno ucciso il teatro Smeraldo, uno dei luoghi della musica più amati della città: qualche anno fa gli hanno messo davanti un cantiere che lo ha fatto lentamente morire. Ora al suo posto c’è un supermercato del cibo standardizzato di lusso, il simbolo della Milano 3.0, qualsiasi cosa significhi. Questa piazza è dove il marketing ha vinto: qui inizia corso Como, dove i calciatori vengono a consumar le modelle e gli arricchiti la cocaina. Qui è dove il piano stradale si alza in una salita assolata e metallica che si apre sulla piazza dei grattacieli, dei boschi verticali, dei palazzi intoccabili di Ligresti, intoccabili perché farciti di amianto e chissà quante altre cose.
Ma qui è anche dove vedo Ginevra.
Ginevra non avrà più di quattro anni, ha un vestitino colorato e bianco e gli occhiali grandi. Ginevra ha un violino che è piccolo come lei e che punta decisa verso un microfono. Le è accanto un ragazzo alla chitarra elettrica, forse è suo padre o lo zio rocchettaro che c’è in ogni famiglia. Si fanno un cenno d’intesa, Ginevra si concentra e suona: sono poche note di una melodia semplice, un esercizio per principianti che riconosco, e la visione è così limpida che non è nemmeno importante che lei sia perfettamente intonata. Ginevra è brava, sappiatelo, ma davvero non importa. Quello che accade ed è importante è che quando Ginevra attacca, la piazza -forse la città tutta- si zittisce e la ascolta, attenta; persino gli esagitati dell’aerobica del vicino stand promozionale sembrano zittirsi mentre urlano nei microfoni attaccati all’orecchio. L’esibizione dura mezzo minuto, e quando la bambina toglie l’archetto dalle corde la piazza esplode in un applauso che dura il doppio del pezzo che ha suonato. Ginevra fa l’inchino, e sorride.
L’anima di Milano inizia a rivelarsi lì.
E a ritroso ripenso al sorriso di tutti quelli che hanno suonato o fatto girare dischi o cantato. Il carotaggio che ho compiuto in silenzio, quasi inconsapevole a me stesso. Cercavo la musica e trovavo l’anima della città. E la trovavo in piazza Brera, sui piatti di Andy Energy, Fabio Mox e Dj Mitch. O in piazza del Carmine durante il set impeccabile degli Unsense. O davanti all’Accademia di Belle Arti , nelle voci del coro tutto femminile In Laetitia Chorus. O nelle note di Jobim del Duo Maracangalha. La trovavo in tutte le altre postazioni di Make Music Milan che non sono riuscito a raggiungere.
L’anima di Milano è una scommessa vinta da questi musicisti, professionisti e dilettanti, nell’assoluta omogeneità del loro sorriso, che è artistico e umano ma è anche politico. È la gioia di una piccola rivoluzione. “Canto per te che mi vieni a sentire, suono per te che non mi vuoi capire, rido per te che non sai sognare” diceva Demetrio Stratos in una delle canzoni più celebri degli Area, Gioia e rivoluzione. Cantare, suonare, ridere.
L’anima di Milano esiste ed è una parola che si chiama “comunità”. Chiunque conosca bene Milano, o ne sia segretamente innamorato, ve lo dirà: bisogna insistere e non smettere mai di cercare. Certo ci vuole fiducia, con una giusta dose di forza, e bisogna credere che ci sia, un’anima, dentro Milano. Sono le sei del mattino mentre lo scopro, e fuori fa giorno. Se adesso lo state leggendo è perché l’ho visto, è vero. Ci credo.
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