Nel 2002 Sadiq, 16 anni, si fa esplodere in un centro commerciale a nord di Tel Aviv. Da quel momento, per la famiglia comincia un inferno ancora senza fine
di Bianca Senatore, da Ramallah
@BiancaSenatore1
.
28 giugno 2014 – Il signor Abd Al-Hafiz ha uno sguardo vuoto, anche quando accenna un sorriso il suo volto si contrae in una smorfia malinconica. Appoggia le braccia sulla poltrona come un guerriero stanco, vinto per l’ennesima volta in battaglia. Ha ricevuto ancora cattive notizie dai suoi legali di Ramallah che da anni, oramai, cercano di far restituire alla famiglia Hafiz il corpo del figlio.
Nel 2002 Sadiq è un sedicenne studioso, un ragazzo come tanti che vive tra le fatiche di una vita rinchiusa nel ghetto di Qalqīlya, città nel cuore della Cisgiordania completamente circondata da un muro, “al-Jidar”, come lo chiamano gli abitanti. Niente lascia presagire quello che sta per succedere.
La mattina del 16 febbraio qualcuno decide di farsi esplodere in un centro commerciale di Karnei Shomron, un insediamento israeliano 48 km a nord di Tel Aviv. Solo dopo l’ora di pranzo, quando la notizia viene diffusa dai telegiornali, nel quartiere della città inizia a circolare la voce che l’attentatore suicida sia proprio il giovane Sadiq, che la madre e le sorelle pensavano a scuola.
.
.
Da quel momento comincia l’inferno della famiglia Al-Hafiz: subito dopo, infatti, la polizia israeliana arresta il padre; per punizione, dopo sette mesi, distrugge la loro casa e poi nega il riconoscimento del figlio tramite l’esame del dna.
«Non ci volevano credere – racconta Margarate, assistente sociale della Mezza Luna Rossa Palestinese – perché Sadiq non aveva mai avuto atteggiamenti bellicosi e voleva avere la certezza che fosse lui, ma le autorità israeliane hanno sequestrato il corpo».
Dopo la distruzione della casa, le donne della famiglia si trasferiscono in un altro quartiere e cominciano faticosamente a ricostruirsi una normalità, mentre il padre è ancora in prigione.
È allora che decidono di chiedere aiuto al Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center (JLAC), lo studio legale che ha la sede centrale a Ramallah. Specializzata nell’assistenza legale alle comunità vulnerabili in lotta contro le violazioni dei diritti umani, l’associazione ha intentato negli anni migliaia di cause, tutte pro-bono, contro demolizioni coatte, confische di terreni, arresti ingiustificati e violenze da parte dei coloni israeliani.
«Per prima cosa – racconta Margarate, che è anche un’amica di famiglia – chiesero di ottenere la prova del dna, poi chiesero che il padre fosse scarcerato e poi, dopo un anno, che il corpo fosse restituito, per darne degna sepoltura».
Nonostante il lavoro degli avvocati, però, tutte le istanze vengono rigettate e per sottolineare la situazione, le autorità condannano il corpo a 12 anni di carcere.
«Di norma il reato si estingue con la morte, ma in questo caso no – spiega Hadiya, sorella di Sadiq – e la pena è stata marchiata a fuoco su un brandello di pelle, su quel che rimane del corpo di mio fratello».
Nonostante la lunga battaglia legale, non sembrano arrivare buone notizie. Soprattutto dopo la sospensione dei negoziati di pace con l’Anp e l’uccisione, lo scorso 15 maggio, di due ragazzi palestinesi davanti alla prigione militare di Ofer, durante la celebrazione del Nakba Day, l’esodo palestinese dallo Stato d’Israele avvenuto nel 1948. Nemmeno il recente incontro tra capo di Stato israeliano Shimon Peres e il presidente palestinese Abu Mazen con Papa Francesco sembra aver allentato la tensione.
«C’è stato un momento in cui sembrava che la vicenda di Sadiq fosse in via di risoluzione – racconta Fatima Abdul Karim, legale del Jlac – ma siamo nuovamente in alto mare con le trattative. Dobbiamo aspettare il prossimo colloquio per convincerli che non è necessario prolungare la sofferenza dei genitori, ma purtroppo ci sono ancora centinaia di famiglie che aspettano il rilascio dei corpi». Terroristi per alcuni, martiri per altri, ostaggi da scambiare in cambio di qualcosa, figli da seppellire.
.
.
Sosteneteci. Come? Cliccate qui!