Questa volta i governi hanno detto sì: l’Albania è il sesto candidato ufficiale all’ingresso nell’Ue. La decisione è stata assunta alla vigilia di un atteso Consiglio europeo e in un momento cruciale della storia politica dell’Unione
di Nicola Pedrazzi, tratto da Osservatorio Balcani e Caucaso
@Nicola_Pedrazzi
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2 luglio 2014 – L’Europa politica sta vivendo giorni molto intensi. Il Consiglio europeo del 26-27 giugno non è stato un vertice di ordinaria amministrazione, ma un appuntamento ad elevato contenuto politico in un momento cruciale della storia europea. Su invito del Presidente uscente Herman Van Rompuy, i capi di stato e di governo degli stati membri si sono ritrovati nelle Fiandre, a Ypres, città simbolo della Prima Guerra Mondiale che prese avvio proprio nei Balcani esattamente un secolo fa: era il 28 giugno 1914.
Dopo una cerimonia commemorativa sotto l’arco di Menin – memoriale eretto nel luogo da cui partivano le truppe per le prime linee, in una delle più grandi mattanze fratricide del Secolo breve – i leader del continente, indeboliti o rinvigoriti dalle recenti elezioni europee ma in ogni caso intrisi del senso tragico della storia, si sono riuniti per discutere del futuro di questa nostra difficile Unione.
Sul piatto diversi nodi politici, cruciali e correlati: la crescita, la competitività, il lavoro, il problema climatico ed energetico, le relazioni con l’Ucraina e con la Russia, nonché, certamente, l’individuazione del nuovo Presidente della Commissione da sottoporre al voto del Parlamento europeo. In attesa della “fiducia”, possiamo dire sin da ora che la nomina di Jean-Claude Junker da parte dei governi rappresenta una vittoria della nascente democrazia europea: grazie all’interpretazione estensiva che i partiti politici europei hanno saputo dare del Trattato di Lisbona, d’ora in avanti tutti i Presidenti della Commissione dovranno vedersela con gli elettori dell’Unione.
In tutto questo, l’Albania?
La salienza del momento storico e l’urgenza dei temi sul tavolo non hanno impedito di ragionar d’Albania. Che se ne sarebbe discusso lo si sapeva, perché così era stato promesso dallo stesso Consiglio Affari Generali nel dicembre 2013, quando per la seconda volta i governi non avevano ascoltato le raccomandazioni della Commissione rimandando la discussione sulla concessione dello status di altri sei mesi: in altri termini, a dopo le elezioni europee.
Una scelta che con il senno di poi appare europeisticamente strategica – così facendo, la candidatura dell’Albania non è stata coinvolta nella diatriba elettorale e non ha rischiato di fornire un ulteriore argomento propagandistico al fronte euroscettico – ma che allora fu dettata più semplicemente dalla dichiarata opposizione dei ministri danesi e olandesi e dalle perplessità di Germania, Francia e Regno Unito – Paesi, quest’ultimi, in cui partiti anti-allargamento hanno appena vinto le elezioni europee.
Sebbene il contesto politico non fosse dei più rosei, nell’ultimo Progress Report pubblicato dalla Commissione il 4 giugno scorso l’esecutivo di Bruxelles aveva ribadito con ancor più forza il proprio parere favorevole, elencando punto per punto le azioni intraprese dal governo albanese nel campo della lotta alla corruzione e al crimine organizzato ed evidenziando l’impegno profuso sulla necessaria riforma del sistema giudiziario. La Commissione aveva in sostanza invitato i governi ad andare oltre ogni ragionevole dubbio, anche per non condannare l’opinione pubblica albanese alla terza delusione consecutiva. Forse anche per questo, questa volta i ventotto ministri riuniti in Lussemburgo hanno trovato l’unanimità necessaria – l’atteso “sì” del governo olandese era già stato annunciato una settimana prima.
Il documento cui il Consiglio dell’Ue ha affidato il proprio consenso è estremamente asciutto: meno di due pagine suddivise in 6 punti. Nel primo è racchiusa la buona notizia, nascosta, come da tradizione, nella sintassi del politichese europeo: “Conformemente alle Conclusioni del 17 dicembre 2013, il Consiglio ha preso atto del Report pubblicato dalla Commissione il 4 giugno e, alla luce della sua valutazione sui continui progressi dell’Albania, decide di garantire all’Albania lo status di paese candidato, previa approvazione del Consiglio europeo”.
I cinque punti che seguono sono invece un elenco di obiettivi da perseguire: a fianco delle oramai proverbiali raccomandazioni su giustizia, corruzione, crimine organizzato e tutela delle minoranze – temi su cui d’ora in avanti non basterà una generica dichiarazione d’intenti ma occorrerà la severa applicazione delle norme esistenti e l’attivazione di politiche specifiche – spiccano i riferimenti espliciti alla coltivazione delle droghe (si legga: alla definitiva soluzione del problema di Lazarat ) e alla pressione migratoria, causata in gran parte dalle infondate domande di asilo politico su cui il Consiglio richiede un maggior controllo.
L’attesa dei cittadini: tra realtà e percezione
Il think tank Albanian Institute for International Studie s (AIIS) ha pubblicato ai primi di giugno i risultati di una ricerca condotta su un campione di 1200 cittadini residenti nei 12 distretti del paese. Il titolo, abbastanza eloquente, era Albania and European Union: Perceptions and Realities. Secondo questa rilevazione, il 49% dei cittadini albanesi è certo della concessione dello status. Anche se il 55% si dichiara consapevole del fatto che l’Albania non sia ancora pronta, il 41% ritiene che il Paese dovrebbe comunque essere accettato nell’Unione; tuttavia, a domanda diretta, i due terzi degli intervistati ritengono che l’Albania non entrerà nell’Ue prima del 2020.
Allarmante ma splendidamente coerente all’andamento degli altri Paesi balcanici è il dato sul consenso all’integrazione: se nel 2013 si dichiarava favorevole l’85% degli albanesi, a un anno di distanza il consenso è sceso al 77% (tra i fattori che determinano questo arretramento pesa più di tutti lo spettro della crisi economica). Ancor più preoccupante è poi il dato relativo all’informazione europea: solo il 20% ammette o denuncia una mancanza di informazione in materia europea, mentre più della metà degli intervistati si ritiene mediamente informata. In questo caso, senza dubbio, la realtà è diversa dalla percezione.
Alla pari di quanto avviene nei paesi membri, anche in Albania il sensazionalismo dei media alimenta spesso e volentieri la disinformazione europea, condannando l’opinione pubblica ad emozioni quantomeno evitabili. Negli ultimi due anni di “balletto” tra Commissione e Consiglio, i facili entusiasmi (“L’Europa ha detto sì…”) hanno partorito inutili delusioni (“…e invece ancora no!”) a distanza di poche settimane. La non comprensione dell’architettura istituzionale dell’Ue non è stata colmata né dai politici né dai giornalisti albanesi: forse perché se si fosse chiarito da subito che tutte le domande di adesione all’Unione necessitano di un parere della Commissione e dell’unanimità in Consiglio, questo lungo tempo d’attesa avrebbe prodotto meno titoli e meno adrenalina politica – obbligando, per altro, ad un maggior lavoro e a una riflessione più profonda.
Difficile, con queste premesse, saper ora distinguere tra il riconoscimento della candidatura e l’imminente ingresso nell’Ue. Tante riflessioni sul “siamo o non siamo pronti all’Europa” che in questi mesi hanno colorato il dibattito pubblico e mediatico, sono in realtà estremamente premature, dal momento che per l’apertura dei negoziati è necessaria una nuova unanimità degli Stati membri (la Macedonia è candidata dal 2005, ma a causa del veto greco sulla questione del nome i negoziati di adesione sono lungi dall’essere avviati) e che anche una volta seduti al tavolo negoziale possono volerci anni se non decenni. Non è un caso che, a scanso di equivoci, la stessa Commissione abbia tempestivamente specificato in un comunicato stampache “lo status di candidato non significa che l’Ue aprirà automaticamente i negoziati di accesso con l’Albania, un passo conseguente e separato, per compiere il quale sono richiesti progressi ulteriori nelle priorità chiave”.
Le reazioni della politica
Il primo a congratularsi con gli albanesi è stato il Commissario per l’allargamento Stefan Füle – la voce dell’Europa che per anni si è spesa in favore del Paese delle Aquile – con un tweet tutto orientato al futuro: “Congratulazioni per la candidatura appena concessa dai ministri: riconoscimento delle riforme fatte, incoraggiamento per quelle da fare”. Immediata anche la soddisfazione del governo italiano, affidata dapprima al Sottosegretario alla Presidenza Sandro Gozi (inviato in Lussemburgo a negoziare per l’Italia) e poi espressa dal ministro degli Esteri Mogherini: “Una tappa storica nella prospettiva di integrazione europea non solo del Paese, ma dell’intera regione dei Balcani Occidentali”. Attenzioni, quelle italiane, che sono state pienamente ricambiate dallo stesso Edi Rama, il quale ha rivolto un particolare “ringraziamento personale, amichevole e fraterno” al premier italiano Matteo Renzi: “Un persistente portavoce a favore dello status di Paese candidato all’Albania, quale un atto meritato”.
All’interno del paese, più che considerarlo una vittoria comune, l’intero spettro politico albanese ha accolto il risultato come un proprio successo. Nonostante i reiterati richiami di Bruxelles all’unità di tutte le forze politiche, Majlinda Bregu (ex ministro dell’Integrazione europea del governo Berisha) è stata, di fatto, l’unico esponente dell’opposizione a congratularsi direttamente con il governo. In una conferenza fiume, Sali Berisha ha invece preferito vestire gli antichi panni di medico, dedicandosi alla diagnosi dei problemi psichico-depressivi di Edi Rama e indicando nella salute del primo ministro il problema principale all’ingresso del paese nell’Ue.
Dalle parole ai fatti
Il governo albanese ha ora il difficilissimo compito di passare dalle parole ai fatti. Per chiarire la delicatezza della situazione ai suoi cittadini, Rama è ricorso a una metafora coniugale cara alla cultura albanese: “Lo status di candidati è come il fidanzamento: pone delle condizioni, senza le quali non ci si sposa”. Ha poi ammonito: “Non vi è dubbio che con il passare del tempo il processo diventerà più intenso, la sfida sempre più grande… La riforma delle giustizia sarà profonda e dolorosa…”. Esattamente due giorni dopo a quest’assunzione di responsabilità, il noto businessman albanese Artan Santo, fondatore e presidente di Credins Bank , è stato ucciso a colpi di pistola di fronte alla sua filiale del Bllok. Le telecamere hanno individuato gli esecutori – due uomini in moto, coperti da caschi neri – ma il movente rimane avvolto nel mistero, alimentando nell’opinione pubblica due delle vere piaghe sociali dell’Albania: la dietrologia e la disillusione.
A fronte di mille confuse percezioni, la realtà è invece una sola, benché complessa. Lo stato albanese candidato all’ingresso nell’Unione è lo stato che ha finalmente saputo usare la forza a Lazarat. Nelle settimane precedenti al Consiglio europeo, il governo ha dato il via ad un’operazione antidroga senza precedenti che ha portato alla distruzione di ettari di piantagioni di cannabis e a decine arresti nel villaggio da anni fuori controllo. Ma è in questo stesso stato che un uomo è stato impunemente ucciso in pieno giorno, nel centro della capitale.
Limitare il proliferare delle percezioni e lavorare sulla realtà dei fatti è dunque il duro dovere cui è chiamata la politica albanese, l’impegno che un’intera generazione politica ha assunto di fronte agli albanesi e di fronte all’Europa. Ieri mattina Barroso è atterrato a Tirana per i festeggiamenti. In autunno, una nuova Commissione pubblicherà un nuovo Rapporto sul paese.
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