Golpe in Egitto, un anno dopo. Il ricordo di Milano

 A un anno dal golpe di Al-Sisi, la comunità egiziana a Milano scende in piazza per protestare contro la stretta autoritaria dei militari al Cairo

testo di Lorenzo Bagnoli, foto di Germana Lavagna
@Lorenzo_Bagnoli

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5 luglio 2014 – Il 3 luglio 2013, il golpe. Il generale Abdel Fattah Al-Sisi, 59 anni, è appoggiato con le braccia larghe sul leggio. La faccia tesa per il primo discorso alla nazione. C’è anche in piazza Cordusio, a Milano, un anno dopo. Lo rappresenta un ragazzo con l’aria marziale, gli occhi nascosti dietro un paio d’occhiali da sole. Accanto a lui, Abdallah, studente in Inghilterra, venuto in Italia per qualche giorno con un’ong internazionale, ha i polsi ammanettati e lo sguardo basso. Rappresenta il presidente appena deposto, Mohammed Morsi. L’uomo che appena dieci mesi prima era stato acclamato dalle urne elettorali come il nuovo presidente dell’Egitto.

Sul palco, stretto tra la fine di via Dante e l’attraversamento pedonale per raggiungere la pensilina del tram, è affollata. Una decina gli attori sulla scena per questo flash mob che vuole ricordare ai milanesi quanto è accaduto in Egitto. Ci sono i corpi ammassati dei 529 civili condannati a morte dal nuovo regime. Le donne rapite da militari con il volto coperto. Ci sono i giornalisti, anche loro vestiti di bianco, dietro le sbarre di una prigione. Un militare steso a terra, con il fucile puntato. Una studentessa intenta a scrivere, mentre accanto le sedie occupate dai suoi tre colleghi sono vuote: tutti arrestati. Ci sono donne e uomini che manifestano, con in vista le quattro dita di una mano, il saluto della piazza. E poi, c’è un ragazzo a terra, sporco di sangue. Ha una targhetta accanto, come tutte le altre scene: “14.08.2013”, recita. Il giorno del massacro di Rabaa. Una parte della comunità egiziana di Milano, la seconda più numerosa d’Europa, dopo Parigi, ricorda così i giorni funesti che hanno portato l’inverno, dopo la contraddittoria primavera di piazza Tahrir. In meno di un anno, i sogni di gloria si sono infranti contro le promesse non mantenute di un presidente forse inadatto, contro la macchina propagandistica che ne ha distrutto anche quella credibilità che gli era rimasta, contro lo strapotere della casta militare, che ha sempre deciso chi doveva governare in Egitto.

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A recitare sono ragazzi e ragazze milanesi: nessuno ha più di 25 anni. L’Egitto lo conoscono per i viaggi d’estate, a trovare i nonni. Come Alaa, una delle organizzatrici. Vent’anni incorniciati da un velo nero, che esalta ancora di più gli occhi vispi e intelligenti. I giorni dopo il golpe, lei c’era a piazza Rabaa al-Adawiya. E c’era il giorno in cui la piazza s’è trasformata in un mattatoio: il 13 agosto di un anno fa. Lo ricorda così.

I corpi cominciano ad arrivare d’improvviso nella strada che divide la moschea dall’ospedale. Li trasportano in moto, in macchina, con i tuk tuk, con le carriole. Arrivano a fiotti, dopo che l’esercito ha sfondato la cordata dei volontari che garantivano la sicurezxza della piazza dove si concentravano le forze “anti-coup”, contrarie al colpo di Stato ordito da Al Sisi. C’è tutta la famiglia: la sorella, i cugini, gli zii. Appena finita la preghiera del mattino sentono le sventagliate di armi da fuoco che si fanno sempre più vicine. Piovono lacrimogeni. Scappa con la sorella in un negozio di fiori: un minuscolo spazio dove si ammassano i corpi dei fuggitivi. Ci sono soprattutto donne e bambini. Poi di nuovo quell’odore acre che dalle narici sale fino alla testa. Un odore che non si scorda. Una nuova fuga, sotto il tiro dei cecchini che li guardano dall’alto, pronti a sparare. Per andare nel nuovo nascondiglio si passa da un pertugio strettissimo. E se anche qui arrivassero i lacrimogeni? Come se ne esce? Troppo pericoloso, meglio andarsene. Fuori ci sono gli uomini delle forze speciali. “Venite con noi”. Una parte della famiglia non si fida. Gli altri vengono divisi: uomini da una parte, donne dall’altra. Iniziano gli sputi e gli insulti. Le minacce di morte. Poi uno tira fuori la telecamera: “Ve ne state andando senza aver subito violenze, vero?”. La zia annuisce. Sono fuori dalla piazza. La strada è un rosario di check point, impossibile da sgranare fino all’ultimo. Meglio fermarsi prima, da un amico. L’indomani li raggiunge anche l’altro pezzo della famiglia. E se ne tornano a casa.

Nessuno ha contato i corpi rimasti a terra: 525 morti e più di 3717 feriti in tutto l’Egitto, secondo alcuni. Per altri della stampa internazionale s’ipotizza un numero molto più alto. I Fratelli Musulmani – sostenitori di Morsi e delle proteste – dicono 2 mila morti solo al Cairo.Il primo ministro turco Tayyip Erdogan, il giorno dopo, saluta la piazza con le quattro dita. Quattro, come il significato di Rabaa in arabo: “La piazza resisterà”, dice Erdogan.

“In Egitto hanno sempre comandato i militari. I media condizionano le opinioni della popolazione e i militari scelgono chi governa”. Sentenza inappellabile, quella di Alaa. Quel flash mob è il suo messaggio a chi in quella piazza c’è ancora. È il messaggio di una milanese che s’è scontrata con la storia. E che da lontano vuole continuare a sentirsi partecipe. A prescindere dalle dinamiche politiche dell’Egitto.

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