#HumanGaza3

Raccontando delle persone, delle vite, delle giornate di quelli che la guerra la pagano


di Q Code mag
@QcodeM

 

13 luglio 2014 – L’ennesima punizione collettiva alla quale viene sottoposta la popolazione civile di Gaza, come tutte le altre, non porterà a nessun risultato. Sempre che il risultato non sia quello di nuovi lutti, di nuove distruzioni, di un odio che non potrà che crescere, ingrossando le fila di coloro che non hanno più alcuna fiducia in una soluzione giusta del conflitto.

Il governo israeliano, attraverso il suo esercito, ancora una volta scatena una pioggia di fuoco in risposta al lancio di razzi di qualche gruppo, come se ne fossero responsabili i civili di tutta la Striscia di Gaza. Che dieci anni fa, mentre festeggiavano la fine di un’occupazione, si sono resi conto di essere finiti reclusi in una prigione a cielo aperto. Cielo dal quale, a cicli alterni, piovono bombe.

Questa raccolta di pensieri (in quindici righe) vuole essere un racconto ‘altro’ di Gaza, reso da coloro che hanno avuto per i motivi più diversi la fortuna di incontrare l’umanità di Gaza, quella che non viene mai raccontata, da media che si ricordano di Gaza solo quando c’è un attacco, come se la vita a Gaza non fosse un inferno quotidiano. Ma anche nell’inferno la vita esiste e resiste, sempre, ogni giorno. Ed è questa resistenza di umanità che questa raccolta di voci vuole raccontare. 
Perché a un popolo si può togliere la libertà, ma non gli si può togliere l’umanità.

Se siete mai stati a Gaza, mandateci le vostre quindici righe all’indirizzo: redazione@qcodemag.it

 

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Grazia Careccia, giurista esperta di diritto internazionale

La prima volta che sono stata a Gaza era l’ottobre del 2009, dieci mesi dopo Piombo Fuso, e ancora la facevano da padrone le macerie, le case distrutte e le voragini lasciate dalle bombe israeliane. Ma tra queste macerie ho trovato generosità, dignità, umanità. I miei ferri del mestiere, penna e macchina fotografica, erano impotenti di fronte al senso di desolato abbandono delle famiglie costrette a vivere in tende piantante sul quel che rimaneva dei sacrifici di una vita: la loro casa ridotta a brandelli. Come sempre mi hanno offerto del tè che questa volta, nonostante le tradizionali generose cucchiaiate di zucchero, era amaro e scendeva a fatica.

La forzata incoscienza negli occhi dei bambini, che giocavano a piedi scalzi tra le pietre di quella che era stata un tempo la loro casa, strideva incessantemente con il dolore degli anziani, che per troppe volte nella loro vita avevano già visto distrutto il prioprio tutto, che per troppe volte avevano dovuto ammassare poche cose in fretta e lasciare la loro terra per diventare eterni rifugiati in un mondo sordo all’ingiustizia a cui sono condannati.

Lasciando Gaza, ogni passo lungo quel corridoio interminabile e solitario che la separa da Erez sembrava non avere senso. Non avrei voluto andarmene, avrei voluto restare per continuare ad essere parte di quella resiliente e vitale quotidianità dettata dal bisogno di ricostruire le proprie vite, la propria speranza, soprattutto per i propri figli. I palestinesi, e soprattutto quelli di Gaza mi hanno insegnato qualcosa che mai avrei potuto imparare dai libri: bombe e bulldozer possono bruciare corpi e maciullare case, ma l’anima di un popolo che lotta per la propria dignità e libertà, un popolo il cui desiderio è vivere in pace, rimarrà sempre umana.

 

 

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