Dalla Lombardia alla Puglia, storie di persone (e dei loro familiari) colpite da Alzheimer. Generazioni che si ribaltano, tra balli, badanti, silenzi, lacrime e speranze in una cura del futuro
di Stefania Culurgioni
con foto di Mariangela Marseglia
15 luglio 2014 – Nessuno di noi ama pensarsi vecchio. Non ci viene facile pensarci come ottantacinquenni malati di Alzheimer, o come dei novantenni incapaci di stare in piedi, dipendendi in tutto dagli altri, con il cervello confuso, annebbiato, rallentato. È un sentimento di rimozione collettiva, che la politica asseconda, vuoi per mancanza di risorse, vuoi proprio perché portare in agenda questi temi non entusiasma il “cittadino medio”. Eppure il fenomeno dell’aumento costante della popolazione anziana è uno dei più certi e rilevanti, a livello globale, e rappresenta una certezza demografica, in grado di incidere su dinamiche sociali e sostenibilità delle finanze pubbliche. Oggi nel mondo vivono 810 milioni di anziani, ma nel 2050 ce ne saranno 2 miliardi. Anche in Italia gli ultraottantenni sono in costante crescita. Nel 1990 erano il 3% della popolazione, ovvero 1 milione 800mila persone, nel 2010 sono diventati il 6% (3 milioni 500mila) e nel 2020 saranno il 7,5 % (4 milioni 500mila) tanto che Ban Ki Moon, il segretario generale dell’Onu, ha detto: “Ci saranno conseguenze profonde nella società. È un’opportunità da cogliere, che però presenta anche delle sfide sociali”.
L’aumento dell’aspettativa di vita, e quindi della popolazione anziana, ha un’implicazione di grande attualità, che prima o poi bisognerà affrontare con decisione: il tema della non autosufficienza. E in questo grande calderone, c’è un tema che viene fuori con prepotenza: quello dell’Alzheimer. In Italia 500 mila persone soffrono di questa malattia ma l’invecchiamento progressivo porterà ad un incremento dei malati: si stima infatti che da qui al 2015 le persone colpite da questo morbo raddoppieranno.
Due anni fa, il Presidente degli Stati Uniti d’America Barak Obama ha dichiarato: “Troveremo una cura contro l’Alzheimer entro il 2025”. Il governo americano insomma ha deciso di impegnarsi seriamente nella lotta contro una delle malattie più estenuanti del nostro secolo, piaga quotidiana per 36 milioni di persone nel mondo. Intanto, però, come stanno le cose? Le possibilità di trattamento sono ancora poche e per lo più limitate alla sintomatologia. Ecco perché ci si concentra sulla lotta allo stigma che spesso spinge il malato e la sua famiglia a tacere rispetto al proprio problema e ad isolarsi sempre di più.
Ostuni (Brindisi): la storia di Angelo, ex professore di educazione tecnica
La prima volta si misero tutti a ridere. Erano passati solo pochi minuti da quando, ed era già la terza volta che succedeva, aveva richiesto ai figli quando partiva il treno per Roma. Dovevano andare, tutti insieme, ad assistere alla laurea della figlia minore in psicologia. Quando però arrivarono all’Università, dopo un viaggio di qualche ora, si accorsero che qualcosa non andava: Angelo, che all’epoca aveva 64 anni, sembrava confuso, taciturno, spaesato ed era più burbero del solito. Quel cambiamento di situazione, anche se “semplice”, lo stava destabilizzando, lo faceva sentire smarrito. Non sentiva la gioia di quel momento. “
Noi ritornammo alle nostre vite, tra Milano e Roma, mentre mia madre, a Ostuni, lo portò a fare una visita da un neurologo – raccontano le figlie – quando uscì dallo studio, ci disse esattamente così: ‘non è niente di grave, il dottore ha detto Alzheimer’. Mia madre non aveva idea di che cosa fosse, le sembrò una parola come un’altra. A noi si drizzarono i peli sulle braccia”.
Il punto è che Angelo ha un fisico di ferro, anche se sono passati cinque anni da quella fatidica giornata romana. Mangia, dorme, cammina così tanto (il wandering, ovvero il vagabondaggio, il bisogno di camminare continuamente, sono una tipica manifestazione della malattia) da tenersi paradossalmente molto in forma. Quello che non regge più è la sua testa. “E’ stato professore di educazione tecnica alle scuole medie – raccontano le figlie – è sempre stato un uomo molto chiuso, un po’ iroso, ma anche molto attento, preciso, dedito alla famiglia e alle faccende amministrative della casa. Amava fare il commercialista, si occupava della dichiarazione dei redditi di mezza parentela, teneva lui la gestione del condominio. Un giorno, mia madre lo ha trovato in piedi davanti ai suoi fogli di lavoro pieni di numeri e tabelle. Li guardava sbigottito. Non si è mosso per diversi minuti, incerto su cosa doveva farci. Lei non ha capito subito. A dire il vero, lei ci ha messo anni ad accettare la sua malattia, e forse non l’ha accettata del tutto neanche adesso”.
Gli anziani in Puglia sono circa 770mila e di questi la metà ha superato i 75 anni di età. La popolazione anziana cresce di 10 mila unità all’anno. Il tasso di mortalità per demenze e malattie del sistema nervoso è di 24,7 anziani ogni 10 mila abitanti. E nonostante questo, nella regione esistono solo 10 centri diurni per persone affette da Alzheimer. “La situazione con mio padre si è fatta sempre più complessa – hanno continuato Mariangela e Annarita, 39 e 28 anni – papà non ricorda più nulla. Se gli chiedi come ci chiamiamo non sa rispondere. Se gli chiedi quanti figli ha non sa cosa dire. Se gli chiedi in che anno ci troviamo oggi va in panico. Si è fissato con i soldi: li nasconde perché pensa che mia madre glieli rubi. Non vuole lavarsi. E adesso si è fissato che lei lo tradisce”. Lei, appunto, si chiama Domenica, gli sta accanto da 40 anni e lo accudisce come un figlio. E soprattutto, siccome i figli (tre, due femmine e un maschio) sono tutti lontani, tutto il peso dell’assistenza ricade su di lei. E non è una vita facile: Angelo non ha coscienza di essere totalmente dipendente da lei. E per lui, sua moglie è uno specchio: se lei è nervosa lui è nervoso, se lei è stanca lui lo è, se lei è depressa lui si arrabbia. Diventa aggressivo, sospettoso. “La cosa più tremenda – ha confessato Domenica ai figli – è che nei suoi occhi non c’è riconoscenza per tutta la dedizione che ci metto. Lui, semplicemente, non capisce. E spesso, sempre più spesso, è aggressivo”.
La figlia maggiore, Mariangela (ndr autrice di queste foto), ha deciso di passare all’azione: nel 2012 insieme ad un gruppo di amici ostunesi, pur vivendo a Milano, ha creato un’associazione. Astera è nata per iniziativa di un gruppo di volontari: è totalmente autofinanziata e ha lo scopo di fare da ponte tra le famiglie, le persone affette da Alzheimer e la comunità. Si avvale della collaborazione di professionisti specializzati ed esperti (counselor, psicologi e assistenti sociali) che due volte alla settimana gestiscono, in una ex pizzeria donata dalla famiglia di Francesco Attanasio (che oggi è il presidente del gruppo), dei laboratori di arte terapia. Insieme a counselor e volontari, i malati di Alzheimer trascorrono delle ore insieme costruendo piccoli oggetti a mano: lampadari con bacchette per il caffé, bomboniere per matrimoni, mattonelle decorate con disegni in vernice.
“Il morbo di Alzheimer è una forma di demenza degenerativa e ogni anno si contano 150mila nuovi casi in Italia, di cui circa 7mila in Puglia – ha spiegato il Dott. Antonio Frascaro, neurologo ostunese – in realtà pensiamo che si tratti di numeri sottostimati perché c’è ancora molta incredulità, soprattutto tra i medici di base che pensano erroneamente che tutti gli anziani, prima o poi, andranno incontro a una qualche forma di demenza e danno per scontato molti sintomi. Quello che al contrario bisogna fare è anticipare la diagnosi, precederla, perché prima si scopre il morbo prima si possono dare al paziente farmaci specializzati. I farmaci non curano la malattia, ma migliorano senz’altro la qualità della vita della persona”.
“Qualità della vita significa anche non chiudersi nella malattia e nell’isolamento, nell’imbarazzo e nella paura, bensì mantenere una quotidianità ricca di relazioni con gli altri – ha spiegato Rubina Calella, counselor di Astera – una quotidianità attraversata da emozioni dove ogni anziano può liberamente esprimere la propria creatività”.
Sesto San Giovanni (Milano): nell’Alzheimer Café dove la malattia la si affronta insieme
In una sala addobbata con striscioni colorati, piena di persone che ballano, ridono, parlano, si danno di gomito per scherzare sulle rispettive pose da attempati seduttori, invitano le mogli altrui a un giro di valzer e fanno cerchio per bisbigliarsi le ultime novità di famiglia, c’è una bambola immobile su una sedia, con un cappello di feltro verde scuro in testa, il trucco distribuito sulle guance, le mani incrociate posate sulle gambe, gli occhi velati, le labbra socchiuse, un pallore di porcellana a offuscarle il viso. La musica frusta la sala da una parete all’altra come in un guscio vuoto, esce dalle casse imperfetta riverberata in mille eco, si mischia al vociare, alle risate che le stridono addosso, al ringhio stridulo di una sedia spostata senza sollevarla. Se osservi bene la bambola immobile, puoi notare una minuscola vena che le pulsa sul collo, le narici trasparenti allargarsi impercettibilmente e una donna più giovane che le assomiglia moltissimo, parlarle all’orecchio con voce dolce. Chi è? “Lei è la mia bambina – spiega Ada, che è sua figlia – Mia madre è la mia bambina di 85 anni. A volte riesco anche a farla cantare”.
Siamo a Sesto San Giovanni, in un ampio stanzone dentro l’oratorio della parrocchia Santo Stefano. Fuori è un pomeriggio caldo di un giorno della settimana ma dentro è festa, una di quelle feste che accadono solo due volte al mese, quando è il momento di ritrovarsi all’Alzheimer café. La bambola non è una sola, ce ne sono altre. E altri uomini con lei, con lo sguardo un po’ perso, una luce remota negli occhi, l’espressione di un bambino vecchissimo che cerca di capire dove si trova. Sono i fantasmi dell’Alzheimer, i cancellati, i vagabondi di un passato che vive solo nelle loro memoria, lontanissimi dal qui e ora, oppure presenti, ma per dimenticarsene subito. Qui si sente la gioia e la pena delle loro famiglie, soprattutto dei figli, che ad un certo punto ne diventano i genitori, li accudiscono, li accompagnano, li guidano e decidono per loro, come in uno strano contrappasso del destino. “Non so esattamente quando si sia ammalata – spiega Ada che ha 55 anni, una famiglia e due figlie, un lavoro part time – ma so che in un certo senso non è più la mia mamma, non ricorda niente, vegeta, non parla”. Il marito è morto qualche anno fa, uno dei suoi figli lo ha perso per un tumore al fegato da cinque anni ma nessuna di queste cose esce più dalla bocca di questa bellissima signora di 86 anni. Sua figlia è tutto quello che le resta: “L’Alzheimer Cafè è un appuntamrnto che abbiamo due volte al mese, e per fortuna che esiste. Solo in queste occasioni riesco a farla uscire, e a volte capita addirittura che le scappi qualche canzone. Per me è una conquista ma per il resto è tutto molto pesante. Ho sempre paura di non fare abbastanza, faccio il possibile perché lei sia serena per questo poco tempo che la avrò con me, ma la vedo consumarsi sempre di più, come un lumicino”. Ada ha dovuto prendere una badante: le costa 870 euro al mese più 760 di contributi, assiste la signora dalla domenica alle 8 di sera al sabato alle 14 e ogni giorno ha una pausa di due ore: “Vado io a coprire quel tempo vuoto – continua Ada – il suo stipendio lo paghiamo con la pensione di reversibilità di mio padre, ma anche con i risparmi messi via dai miei. Senza non ce la faremmo”.
Nella sala ad un certo punto accade qualcosa. Alcune ragazzine, studentesse di una scuola in visita all’Alzheimer Café, hanno preso in mano il microfono e improvvisano una canzone su una base musicale. Un uomo si mette al centro della pista e abbraccia una volontaria col grembiule rosso che stava distribuendo coca cola e pasticcini. Insieme si lanciano in un ballo, coordinati e seriosi come le coppie di valzer di una balera, come se fosse la cosa più solenne di questo mondo. Lui si chiama Luigi e ha 80 anni: “Sono del 1932 ed è mia moglie ad essere malata di Alzheimer. La vede? Eccola là. Ma non scherzi, non le dica che questa ragazza con cui sto ballando è la mia fidanzata. Potrebbe arrabbiarsi, guai per me, ci tiene ancora moltissimo”. Luigi parla della moglie e gli si fanno gli occhi lucidi. “Mi sono accorto che non stava bene perchè perdeva la memoria. Mi chiedeva: cosa devo mettere su da mangiare? Ma avevamo appena finito il pranzo. Si chiama Odiglia e ha sempre fatto tutto lei in casa. Oggi sono io che cucino e che la vesto”. Qualche giorno fa Odiglia ha chiesto a Luigi che scarpe dovesse mettere, lui le ha risposto di mettere quelle nere, ma poi lei si è dimenticata ed è uscita con le pantofole e nessuno dei due se n’è accorto se non quando sono tornati a casa. “Abbiamo fatto tanta vita insieme – ricorda Luigi – abbiamo viaggiato, ballato, avuto tanti amici, ma ora vede? Lei è così, e io non ho più voglia di vivere”. Ma nei giorni in cui apre l’Alzheimer Cafè, all’appuntamento non mancano mai. Arrivano a braccetto, pian pianino, lei si siede ad un tavolo, lei parla e balla e si aggrappa a quel resto di vita che gli gira intorno, e resiste, resiste…
“Mi chiamo Domenica, ho 50 anni e sono la mamma.. ehm, sono la figlia.. insomma faccio da mamma a mio papà”. Eccone un’altra: una mamma di due ragazzini, uno alle elementari e una alle medie, e di un vecchietto di 82 anni che con l’Alzheimer si è trasformato in bambino. “Ho capito che qualcosa non andava dieci anni fa – racconta – perché dimenticava di aver mangiato. Poi è mancata mia madre e la sua malattia ha accelerato. Ha vissuto per quattro anni da solo, una mattina me lo ritrovo per strada, non sapeva di avere vagato da solo per tutta la notte così ho dovuto prendere una badante”. Come per Ada anche in questo caso il costo mensile è lo stesso: 1500 euro al mese, nessun aiuto dallo Stato. “Mio papà ha la reversibilità di mia madre che è morta ma non mi basta: i miei genitori hanno risparmiato una vita e per ora attingiamo ai loro risparmi. Non siamo riusciti ad ottenere il contributo di invalidità: alle visite mio padre è sempre stato in grado di rispondere alle tre domande che gli venivano fatte: come ti chiami? Questa che ti accompagna chi è? In che stagione siamo, inverno o estate? Le risposte sono state giuste, ma ciò non vuol dire che lui sia autonomo. Si dimentica ogni due minuti di quello che sta facendo, di dove stiamo andando, se ha mangiato o no, se ha preso le medicine o no, insomma è perso, da solo non ci può stare. E io devo controllare sempre”. Domenica dice di sentirsi depressa, di sentirsi stanca, di non avere il giusto distacco per affrontare la malattia di suo padre. Questo nuovo e inaspettato bambino è un tipo tosto, che richiede attenzioni con lo stesso egoismo di un neonato. Solo più grande, più pesante, più alto e in corsa verso un progressivo oblio di se stesso, non verso la coscienza di sé, come un figlio vero. Che poi è una inderogabile legge della vita. Amara però.
“Abbiamo ripreso il progetto dello psicogeriatra Bere Miesen che a Leida, in Olanda, nel 1997, ha realizzato per primo un Alzheimer Café”. Anna Giuliani è presidente dell’Associazione Sacumé Onlus che a Sesto San Giovanni, in collaborazione con la Caritas, gestisce un innovativo “Alzheimer Café”. “Fu Miesen che primo si rese conto che, per i malati di Alzheimer e le loro famiglie, era opportuno creare luoghi di aggregazione dove potersi incontrare e svolgere attività per mantenere il più a lungo possibile le residue capacità del malato. Nel nostro centro operano 30 volontari e tutto ruota intorno a due momenti. Anzitutto l’accoglienza: i malati vengono accompagnati qui da familiari e badanti, e vengono loro proposte attività di stimolazione cognitiva. In un locale a parte i familiari incontrano professionisti del settore, il geriatra, l’infermiere, il neurologo, con l’obiettivo di migliorare la loro capacità di prendersi cura del malato a casa”.
E lo Stato cosa fa? Anche i fondi sono “non autosufficienti”
Non ci sono stime precise su quante sono, in Italia, le persone che dipendono quasi del tutto dagli altri, ma il solo elenco delle categorie fa comprendere la portata del problema: pazienti con gravi patologie degenerative non reversibili; pazienti che, a seguito di una malattia neoplastica, si trovano nella fase terminale della vita; pazienti con gravi stati di demenza; pazienti con patologie di andamento cronico degenerativo; pazienti con gravissimi disagi psichici o intellettivi che necessitano di assistenza vigile; pazienti con celebrolesioni o stati vegetativi che necessatiano di assistenza vigile. Un censimento non esiste, ma quello che si può dire è che in Italia le residenze socio assistenziali e socio sanitarie sono quasi 13mila, per quasi 450mila posti letto: il 72% di queste strutture ospita anziani non autosufficienti, mentre solo una piccola parte accoglie disabili, tossicodipendenti, malati psichiatrici e minori italiani o stranieri. Il 66 per cento di queste residenze si trova al Nord e nel 66 per cento di casi si tratta di strutture private.
E qui arriviamo al punto: come fanno a vivere e a mantenersi queste persone? Su chi pesa il carico della loro assistenza? Quanti e quali sono gli aiuti dello Stato? Che cosa fa una famiglia quando si trova a gestire un membro non autosufficiente? Le risposte sono diverse, ma è sicuro che l’aiuto che arriva dallo Stato è sempre meno decisivo, si sgretola e si fa sempre pià sottile. Soprattutto, la risposta per i malati di Alzheimer e le loro famiglie pare non essere sufficiente: il peso, il carico, ricade soprattutto sui caregiver, cioè i familiari, che si incaricano della cura fisica e del sostentamento economico dei malati.
Una prima opzione è ricoverare il malato in una RSA: una “unità di offerta residenziale” secondo la terminologia tecnica, rivolta a persone non autosufficienti che hanno più di 65 anni, non assistibili a domicilio e richiedenti trattamenti continui. Luoghi di cure e assistenza ma anche luoghi di vita, insomma: una seconda casa che cosa 69 euro al giorno. Un’altra opzione più “leggera” è il centro diurno, dove l’anziano e il disabile passa l’intera giornata per poi tornare a casa la sera. Costo: 27 euro al giorno (39 euro con il trasporto). A pagare sono le famiglie, anche se i Comuni, a loro discrezione, ovvero a seconda dei loro bilanci, possono riconoscere una quota di partecipazione a seconda del reddito Isee. Se invece si sceglie l’opzione privata, le famiglie possono affidarsi alla badante che ha diritto a due ore di pausa ogni giorno e al sabato pomeriggio libero. Per metterla in regola e pagare i contributi servono circa 2mila euro al mese. Chi paga? Ovviamente le famiglie.
Ogni persona non autosufficiente però ha diritto a un piccolo sussidio statale e se proprio la sua situazione è grave, anche alla pensione di invalidità. Questi due strumenti possono servire ai familiari per ammortizzare le spese ma il più delle volte non sono sufficienti: l’indennità di accompagnamento è un contributo di 492 euro mensili e viene pagato dall’Inps. In questo panorama complesso un’altra cosa è certa: i soldi che lo Stato ha messo a disposizione di comuni e regioni per il sostegno delle persone non autosufficienti è andato via via scemando negli ultimi anni. Se nel 2008 i fondi sociali per le politiche sociali ammontavano a 2 miliardi 526 milioni di euro, nel 2010 sono scesi a 1 miliardo 472 milioni, e nel 2013 (ed è stata una grande conquista), si è arrivati faticosamente all’accordo di 300 milioni di euro. Sul fondo nazionale per la non autosufficienza è calata la mannaia più implacabile: da 300milioni di euro, nel 2008, è stato azzerato dal governo Berlusconi nel 2011 e non rifinanziato nel 2012. Solo dopo la protesta dei malati di Sla si è deciso di riattivarlo, per il 2013, con 275 milioni di euro. “Non è sufficiente – ha commentato Anna Tombini, sindacalista di Fnp Cisl – chiediamo almeno 500 milioni di euro per coprire tutti i bisogni di famiglie che, altrimenti, non sanno davvero dove sbattere la testa”.
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