Il premier serbo-bosniaco solidarizza con Israele, mentre Erdogan fa rivivere l’Impero Ottomano
[note color=”000000″]In occasione del 27 gennaio, Giorno della Memoria, Q Code inaugura una nuova sezione, “Storia e memoria”. Ogni mese, in questo spazio, racconteremo “storie nella storia”: storie di vita che incrociano, in uno o più momenti, la Storia con la S maiuscola. Parleremo anche di memoria, intesa come memoria storica, collettiva, personale, memoria costruita o decostruita, per indagare le diverse sfumature di un processo che è tutto tranne che neutro.[/note]
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/Schermata-2013-06-15-alle-20.39.17.png[/author_image] [author_info]di Francesca Rolandi, @FrancescaRoland. Storica, ha portato a termine un dottorato in Slavistica e si occupa di studi sulla Jugoslavia socialista. Ha vissuto a Belgrado, Sarajevo, Zagabria e Lubiana e ha provato a raccontarle per PeaceReporter, Osservatorio Balcani Caucaso, Cafebabel e Profili dell’Est[/author_info] [/author]
17 luglio 2014 – “Accettate espressioni di profondo rispetto, sostegno ed empatia con il vostro popolo”. Il presidente della Repubblica Serba (una delle due entità in cui si divide la Bosnia Erzegovina) Milorad Dodik ha così espresso il suo supporto alla causa israeliana, aggiungendo che “le minacce terroristiche e le azioni dei gruppi militanti islamisti sono una minaccia per l’intera comunità internazionale, che dovrebbe essere unita contro questi attacchi”.
Il politico di Banja Luka non è nuovo a dichiarazioni di amore incondizionato per Tel Aviv, che aveva già esternato durante la campagna Piombo Fuso del 2009. In un grottesco gioco di identificazioni, in cui i bosgnacchi sarebbero Hamas e i serbi di Bosnia Israele, Dodik lancia un messaggio bellicoso ai suoi vicini, perorando le ragioni dello scontro tra una supposta comunità internazionale e il terrorismo islamico.
Il premier serbo-bosniaco Milorad Dodik
Un gioco di identificazioni nel quale ha un ruolo fondamentale la contingenza politica del momento, volta a utilizzare nell’asfittica arena politica locale echi di questioni più ampie e tutto sommato lontane dalle rive del fiume Bosna. Paradossalmente, ma non troppo per lo scenario bosniaco, il capo della comunità ebraica, Jakob Finci, ha affermato che “sarebbe importante che entrambe le parti fermassero ogni attacco, perché a morire sono soprattutto gli innocenti”.
Una dichiarazione coraggiosa, dal momento che i morti finora sono stati solo palestinesi. Finci ha anche sottolineato il silenzio della Presidenza della Bosnia Erzegovina, che si dovrebbe occupare della politica estera del Paese, sulla questione di Gaza. Probabilmente divisa tra la solidarietà inter-musulmana e la volontà di compiacere i donors occidentali.
La lettera di Dodik è stata accolta con sincero sdegno a Sarajevo, dove esiste una particolare sensibilità verso le sorti dei palestinesi. E ha anche offerto su un piatto d’argento la risposta a Mustafa Ceric, ex reis ulema e padre padrone della comunità islamica per quasi vent’anni, nonché candidato bosgnacco alla Presidenza nelle prossime elezioni, il quale con un volo pindarico ha dichiarato che l’appoggio allo Stato di Israele servirebbe a giustificare il genocidio commesso dai serbi a Srebrenica.
La cerimonia della tumulazione collettiva a Srebrenica
Sullo sfondo, infatti, le commemorazioni dell’11 luglio a Potocari, dove sono stati seppelliti 175 corpi di vittime bosgnacche, identificate e ricomposte solo oggi, mentre il 12 luglio è stata la volta delle commemorazioni delle vittime serbe nello stesso territorio. Un paragone insostenibile, in termini non solo numerici, tra le due commemorazioni, ma anche l’emblema di due memorie inconciliabili, sulle quali soffia il vento del presente, con le sue tensioni centraliste (nella Federazione croato-musulmana) e centrifughe (nella Repubblica Serba).
E che offrono materia prima a strumentalizzazioni interne ed esterne. Come quella del primo ministro turco Recep Tayyp Erdogan, che in assetto di battaglia e in vesti neottomane, ha dichiarato il 12 luglio che “se qualcuno toccherà i bosgnacchi avrà contro di sé 100 milioni di turchi”. Erdogan aveva già utilizzato la vetrina di Srebrenica per fare sfoggio della posizione di influenza della Turchia nei Balcani nel 2010, quando era riuscito a raccogliere molti applausi sulla spianata di Potocari, scaldando il pubblico come non sapevano fare i politici locali.
Il premier turco Recep Tayyip Erdogan
Quest’anno il primo ministro turco, già indebolito sul piano interno, ha espresso un mea culpa a nome dell’Impero Ottomano per avere “consegnato i fratelli bosgnacchi al nemico senza alcuna protezione da parte dell’Impero austroungarico”. A che cosa esattamente si riferisca e chi sia stato il nemico riesce difficile da ricostruire storicamente, ma la dichiarazione ha svolto la funzione per cui è nata, parlare del presente, e non ha dovuto attendere molto per ricevere repliche infuocate dalla Repubblica Serba di Bosnia.
Poco c’entrano i musulmani balcanici dell’Impero ottomano con i musulmani bosniaci di oggi. Ancor meno c’entra il conflitto palestinese con gli scontri di potere interni alle due entità, entrambe governate da una classe politica incapace e corrotta, sopravvissuta praticamente indenne alle proteste di questa primavera. Nella Bosnia Erzegovina di oggi le problematiche di attualità internazionale, come le questioni storiche, vengono decontestualizzate e prontamente utilizzate per servire gli interessi politici del momento. Fino a coprire quelli reali della popolazione, prostrata da una spirale in cui disoccupazione, povertà e mancanza di prospettive tengono in ostaggio il Paese.