#HumanGaza10

Raccontando delle persone, delle vite, delle giornate di quelli che la guerra la pagano


di Q Code mag
@QcodeM

19 luglio 2014 – L’ennesima punizione collettiva alla quale viene sottoposta la popolazione civile di Gaza, come tutte le altre, non porterà a nessun risultato. Sempre che il risultato non sia quello di nuovi lutti, di nuove distruzioni, di un odio che non potrà che crescere, ingrossando le fila di coloro che non hanno più alcuna fiducia in una soluzione giusta del conflitto.

Il governo israeliano, attraverso il suo esercito, ancora una volta scatena una pioggia di fuoco in risposta al lancio di razzi di qualche gruppo, come se ne fossero responsabili i civili di tutta la Striscia di Gaza. Che dieci anni fa, mentre festeggiavano la fine di un’occupazione, si sono resi conto di essere finiti reclusi in una prigione a cielo aperto. Cielo dal quale, a cicli alterni, piovono bombe.

Questa raccolta di pensieri (in quindici righe) vuole essere un racconto ‘altro’ di Gaza, reso da coloro che hanno avuto per i motivi più diversi la fortuna di incontrare l’umanità di Gaza, quella che non viene mai raccontata, da media che si ricordano di Gaza solo quando c’è un attacco, come se la vita a Gaza non fosse un inferno quotidiano. Ma anche nell’inferno la vita esiste e resiste, sempre, ogni giorno. Ed è questa resistenza di umanità che questa raccolta di voci vuole raccontare. 
Perché a un popolo si può togliere la libertà, ma non gli si può togliere l’umanità.

Se siete mai stati a Gaza, mandateci le vostre quindici righe all’indirizzo: redazione@qcodemag.it

Gaza_Palestinian_Crime_Against_Humanity_Apartheid_Zionist_Occupation_Suffer_Destruction

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Laura Silvia Battaglia, giornalista

Se il profeta Mohammad (pace su di lui) avesse avuto dettata da Allah la visione del purgatorio, oltre che quella della jennah, del paradiso, non sarebbe stata nulla di più vicino a Gaza. Il limbo di cui parla Dante non è una montagna che si erge nell’emisfero Sud della terra, specularmente opposta a Gerusalemme. Il purgatorio del mondo risiede nel suo cuore basso, un ventre brulicante di esseri umani, “vermi” senza uscita lecita dal corpo di Israele, senza dna riconosciuto, senza una dignità certificata, come si addice agli esseri senza ali. Eppure, se fossero gabbiani, questi umani di Gaza si sarebbero già affrancati. Quel mare che hanno di fronte, basso e gentile, piano, senza scogli e asperità, li avrebbe già aiutati.

Li penso così, come uccelli goffi e senza ali ma possenti e, all’occorrenza crudeli, i miei studenti gazawi. Venticinque persone che ho seguito per più di venti giorni nel dicembre 2013. Venticinque persone a cui ho trasmesso piccoli trucchi per potere raccontarci una finestra su Gaza e che oggi mi inondano di messaggi, richieste di aiuto. Che condividono il sogno di una carta d’identità, di una scholarship all’estero, di una vita migliore. E che faticano parecchio, quando postano i loro contenuti sul web a comprendere il senso della verifica delle fonti e di quella che noi, giornalisti occidentali ricchi, liberi e snob, affrancati dalle asperità di esistenze simili, chiamiamo “imparzialità”.

Ne parlammo un giorno, era l’ultimo giorno del workshop. “Siate esseri umani, prima di essere giornalisti”. In realtà quel che avevo detto a loro, erano loro ad averlo insegnato a me. Buttati a mani basse in questa prigione terrestre, tra un mare grigio azzurro e un paio di muri spessi, affacciati alle finestre dei loro palazzi che sghignazzano come bocche sdentate, con il conforto raro dei generatori di corrente e l’acqua della doccia che ti si appiccica sul corpo come un olio di arachidi andato a male, quale umanità è per loro concepibile?

Come si fa a restare umani senza avere una carta che mi dica, che sì, io esisto, io mi chiamo Hassan o Fatima, sono nato in un posto che si chiama Gaza e che questa città fa parte dello stato di…? Quale Stato? Mustafa me l’aveva detto, con il suo fare tenero e spaccone, da bullo di quartiere, da piccolo mafioso siciliano che maschiamente blandisce l’insegnante chiamandola jamila, bella. “Miss jamila, here we are not humans, we are animals”.

Credo che tu abbia ragione Mustafa. Per il mondo siete animali. Animali numerati senza certificazione. Buoni nemmeno per la vendita perché non avete neanche un codice a barre marchiato a fuoco sulla pelle. Però, da animali nel recinto avete una vostra saggezza che altri chiamano rabbia. E avete anche la pazienza di aspettare il momento giusto per la vendetta oppure per la morte che arriverà. Quindi, Mustafa, stay angry, stay wise. Ci vediamo a Gaza, marrathania: una seconda volta, se Dio vuole.

 

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