L’operazione Protective Edge non si ferma, cresce il numero delle vittime, senza che sia chiara la ragione di tutta questa violenza
di Christian Elia
@eliachr
21 luglio 2014 – La giornata di ieri, 20 luglio 2014, è stata tra le più drammatiche dall’inizio dell’operazione Protective Edge, che il governo israeliano ha ordinato all’esercito il 7 luglio scorso.
Le vittime palestinesi – secondo Ashraf al-Qudra, portavoce dei servizi di soccorso palestinese, come riporta l’inviato del manifesto Michele Giorgio – sono ormai almeno 425, di cui 112 bambini, 41 donne, 25 anziani. E’ confermata anche la morte di 13 militari israeliani, per un totale di 18, che si sommano a due civili. Per le Nazioni Unite, sono più di 80mila gli sfollati.
L’operazione condotta ieri nel sobborgo di Shujayie diventerà, mentre già Human Rights Watch parla di crimini di guerra, una pagina near della storio di un conflitto che è scorretto chiamare guerra. Perché non ci sono due eserciti a fronteggiarsi, ma uno tra gli eserciti meglio armati e addestrati al mondo e le brigate dei miliziani palestinesi. Perché le parole hanno un peso: o Hamas è un’organizzazione terroristica, o è un partito che rappresenta un popolo o una parte di esso.
Nel primo caso, come si può radere al suolo un intero quartiere per punire collettivamente la sua popolazione per il fatto che da quella zona sono partiti tanti razzi? Tutte quelle che vengono ritenute formazioni terroriste si sono combattute, in ogni angolo della Terra, con mezzi finalizzati alla loro neutralizzazione, mai è stato punito un popolo intero. Se invece, come dimostrerebbero le elezioni più trasparenti dell’intero Medio Oriente, avvenute nel 2006 e riconosciute universalmente come legittime, Hamas è un partito, allora con Hamas bisogna trattare. Invece ieri il premier Netanyahu ribadiva: “Con Hamas non si deve trattare”. Allora sono terroristi. Allora la popolazione civile viene punita collettivamente per i razzi lanciati da un gruppo di terroristi.
Questo è, a sua volta, terrorismo.
Il cessate il fuoco che non si è verificato è stato imputato ad Hamas. L’informazione dovrebbe però sempre essere completa. Hamas ha chiesto che la tregua sia legata a una soluzione generale delle condizioni di vita di Gaza. Perché questa è la vicenda in ballo: Gaza è Guernica ogni giorno, quando se ne parla per un’operazione militare brutale, e per tutto il resto dei giorni, quando è una prigione a cielo aperto.
La Striscia di Gaza misura 360 chilometri quadrati: da nord a sud misura circa 45 chilometri, da est a ovest tra i 5 e I 12 chilometri. In uno spazio così piccolo, vivono circa un milione e 700mila persone, con una delle densità abitative più alte del pianeta. Quando l’esercito israeliano lancia I suoi volantini, fa le sue telefonate, lancia i suoi razzi di avvertimento, dove dovrebbe scappare questa folla immense e disperata? A Nord? No, il confine con Israele è sigillato. A Sud? No, perchè la giunta golpista egiziana guidata da al-Sisi ha blindato il valico di Rafah. In mare? No, perché ai palestinesi viene impedito perfino di pescare.
Riuscite a immaginare una situazione più claustrofobica di questa? Questa operazione si nutre della sete di vendetta per l’omicidio di tre ragazzi israeliani, ma nasce nel contesto dell’accordo tra Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese. La riapertura del dialogo tra le fazioni dei palestinesi era da impedire a tutti i costi, magari puntanto a una definitiva eliminazione di Hamas. Non è un mistero per nessuno che in Egitto in primo luogo, ma non solo, la Fratellanza Musulmana è al centro di un attacco globale che vede solo nella Turchia e nel Qatar gli ultimi, timidi, sponsor.
L’operazione Protective Edge, con meno ipocrisia, potrebbe essere presentata così: servirà a distruggere Hamas. Ma anche questo non è vero. Coloro che credono a questa versione dovrebbero spiegare come mai, almeno fino alla metà degli anni Novanta, quando Hamas non rappresentava che una realtà marginale, l’occupazione, la colonizzazione, il controllo sistemico delle risorse idriche erano le stesse. Se il problema è Hamas, ritenendo questo gruppo significativo dal 2000 in poi, perché non è nato uno stato palestinese (come previsto dalle Nazioni Unite fin dal 1948) prima?
Non è nato perché gli Accordi di Oslo, pur ritenuti non equi da molti osservatori internazionali, erano stati un passo verso un vero dialogo. I protagonisti di quella stagione, Rabin e Arafat, finirono uno assassinato dall’ultradestra israeliana, l’altro passò in pochi anni da Nobel per la Pace ad assediato nella sua residenza (prima di morire in circostanze ancora non chiarite), durante la Seconda Intifada scatenata da Ariel Sharon e dalla destra che rappresentava e che chiuse la stagione del dialogo ha scelto lo scontro frontale.
Arafat, Rabin e Clinton
Hamas è diventata ogni giorno più potente nutrendosi del sogno svanito della pace. Arafat e i suoi uomini, che avevano promesso la libertà in cambio di dolorosa concessioni, hanno perso credibilità agli occhi dei palestinesi ogni giorno che passava senza una soluzione. E oggi Hamas, che pure prima di questo attacco era in grande difficoltà, può nutrirsi della retorica dell’unico e ultimo baluardo di difesa dei palestinesi.
Perché un palestinese di 70 anni non conosce che occupazione. Il suo cellulare e il suo telefono passano per Israele, come i suoi documenti, i suoi spostamenti, I suoi soldi. Ogni giorno di questi settanta anni, questo palestinese ha tentato di vivere.
Sperando prima nella pace, poi nella comunità internazionale. Ecco che si è ritrovato tradito, deluso, chiuso a Gaza o da un muro di separazione definito illegale dalla Corte dell’Aja. Ma il muro è ancora là, come centinaia di risoluzioni dell’Onu che restavano lettera morta. La sua vita restava la stessa, tra check-point e divieti, case distrutte e minori arrestati.
Poi ha provato a votare, liberamente, scegliendo Hamas (2006) per punire la classe dirigente che aveva promesso la pace e la libertà, ma non era stata capace di raggiungerla, gestendo in modo poco trasparente fondi internazionali. Ma anche questo non gli è stato concesso, nonostante la retorica Usa e Ue sulle elezioni come rituale del culto pagano della democrazia, perché le cancellerie occidentali non riconoscono la legittimità del voto palestinese, deliberando l’embargo su Gaza.
Ancora negli ultimi mesi, gli accordi tra israeliani e palestinesi – mediati dal segretario di Stato Usa John Kerry – prevedevano il rilascio dei prigionieri (il governo israeliano non li ha rispettati) e la cessazione della costruzione di colonie illegali (in costante aumento, al punto che lo stesso Kerry ha censurato il premier Netanyahu). Ma di tutto questo, agli occhi del palestinese di 70 anni, non importa nulla a nessuno.
A qualcuno si, certo. Un appello firmato da cento personalità che vanno da Desmond Tutu a Roger Waters, da Savoj Zizek a Ken Loach, chiede la cessazione immediata delle ostilità. In migliaia di città, in tutto il mondo, cortei contro l’operazione militare in corso a Gaza, sono stati tenuti spesso nell’ombra dai media internazionali, fino al caso surreale del governo francese che tenta di impedirli. Cooperanti e attivisti internazionali si battono per difendere i civili, raccontando quello che accade. Basterebbe leggere la lettera che il chirurgo norvegese Mads Gilbert ha scritto per MiddleEastMonitor, raccontando la sua notte di ieri al pronto soccordo dell’ospedale di Gaza, per rendersi conto della bestiale violenza di questo attacco.
Quel palestinese sa che ci sono anche israeliani che si battono per vivere in un Paese in pace. Micheal Warshawski, Amira Hass, Gideon Levy, l’ong B’Tselem, Breaking the Silence, tanti attivisti, che sono anche scesi in piazza in questi giorni, e tanti altri. Ma anche loro sono sempre di meno, perché più passano gli anni, più gli israeliani che hanno anche vissuto a contatto con i palestinesi, conoscendosi, frequentandosi, sono sempre meno. Lasciando il passo a generazioni di giovani rabbiosi, che arrivano dall’estero, e che conoscono un palestinese solo quando gli puntano un fucile, formati ed educati in una società sempre più militarizzata.
Il palestinese di 70 anni, però, sa che anche l’inchiesta su quanto accaduto durante l’operazione Piombo Fuso (2009), nella Striscia di Gaza, che costò la vita a 1400 palestinesi (80 per cento di civili), è rimasta lettera morta. Eppure denuncia – anche rispetto ai gruppi palestinesi – crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Niente pace, quindi, niente giustizia internazionale, niente libertà, niente stato di Palestina. Come può, questo, non generare un’esasperazione soffocante, figlia di 70 anni di promesse non mantenute?
Questa esasperazione non potrà che generare un cupio dissolvi, nel quale la violenza non è una scelta, ma diventa un destino. Questo accade oggi a Gaza, questo accade in Cisgiordania, da settant’anni. Cosa vi aspettate da questo palestinese di 70 anni? E’ nato, vissuto, invecchiato prigioniero. Non si può pretendere che creda ancora nel futuro. Eppure, ogni giorno, continua a farlo.