194 soprusi

Interruzione di gravidanza, pillola del giorno dopo, obiezione di coscienza. Cinque storie e un video disegnano un quadro di grandi e piccole violazioni nell’applicazione della legge 194

 

Una coproduzione Q Code Magazine – Converso
Testo di Giulia Bondi @gnomade
Video di Anna Ferri e Davide Lombardi
Foto d’archivio Centro Documentazione Donna Modena

 

22 luglio 2014 – “Non sapevano se sarebbero state accolte, se poi rimaste da sole con il medico avrebbero dovuto pagare… L’irrequietudine. Il fastidio di essere costrette a supplicare per qualcosa che spettava loro di diritto”. Le parole sono della femminista Adele Faccio, in un intervento a Radio Radicale del 17 ottobre 1978, pochi mesi dopo che la legge dello Stato 194 aveva reso legale, in Italia, l’interruzione volontaria di gravidanza.

A quasi 36 anni di distanza, la cronaca di questi giorni racconta ancora di ospedali in cui si paga il pizzo per poter abortire. E cinque storie tra il nord e il centro Italia, raccolte con un semplice appello sui social network, tratteggiano il quadro di un diritto applicato ancora a fatica, supplicando, sentendosi in colpa.

Ci sono Silvia e Giovanni, milanesi, “accolti” in ospedale al grido di “Assassini” dalle militanti dei movimenti pro-life. C’è Vittoria, che racconta: “quando abortisci, anche se sei costretta a farlo, ti trattano con disprezzo”. Maria Cristina, redarguita dal farmacista che le vende la pillola del giorno dopo. Maria, ostetrica di un ospedale pubblico lombardo “dove è ben radicata Comunione e Liberazione”. Elena e Giulio, romani, che per ottenere la contraccezione di emergenza hanno finito per rivolgersi agli “Ambulanti”, medici volontari che assistono i migranti senza documenti.

 

Guarda il video reportage di Anna Ferri e Davide Lombardi

 

 

Roma, 2014: “Vi faranno aspettare per ore”

“Mi sono reso conto di quanto fossero scarse le nostre informazioni solo quando ci siamo trovati nella situazione di avere bisogno della pillola del giorno dopo – racconta Giulio. – Era sabato, e in mancanza di consultori aperti ci siamo presentati all’ospedale più vicino, il San Camillo.

Il responsabile dell’accettazione ci ha avvisato subito: ‘In servizio ci sono solo obiettori, vi farebbero aspettare per ore, per niente’. La cosa – prosegue Giulio – all’inizio ci è parsa perfino comprensibile, trattandosi di un ospedale religioso. Ci siamo messi a fare mente locale sugli altri ospedali, ma tutti i più vicini erano collegati comunque alla Chiesa. Abbiamo temuto di ricevere lo stesso trattamento”.

Elena e Giulio chiedono aiuto agli amici. “In un centro sociale che frequento, lo Strike, c’è un servizio di assistenza sanitaria gestito da medici volontari, e di solito destinato a migranti o indigenti – riprende Giulio. – Una dottoressa giovane ci ha incontrato la sera per farci la prescrizione e informarci un po’ sugli effetti del farmaco”.

Solo dopo qualche ora Giulio ed Elena si rendono conto della situazione paradossale: “Noi abbiamo trovato una soluzione all’italiana, con gli ‘amici di amici’, ma non oso pensare cosa accada alle persone che hanno meno contatti o strumenti culturali e si vedono rifutare un servizio. Senza contare il fatto – aggiunge – che per la contraccezione di emergenza l’obiezione di coscienza non sarebbe nemmeno prevista”.

Quelle che vengono prescritte come “pillole del giorno dopo” ma sarebbe più corretto chiamare “contraccezione di emergenza” sono infatti farmaci a base di estroprogestinici, il cui effetto è ritardare l’ovulazione. Secondo la definizione adottata dall’Organizzazione mondiale della sanità, non costituiscono metodi abortivi.
In Spagna, conclude Giulio, “ho sentito amici dire: ‘se non c’è il preservativo non faccio l’amore’. Una frase che non ho mai sentito, e mai detto, in Italia. Chissà cosa succederebbe – si chiede – se ci fosse più informazione e meno tabù”.

 

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Modena, 2008: “Che stronza, stai abortendo”

“Avevamo già un bambino di un anno e mezzo – racconta Vittoria, milanese trapiantata in Emilia – quando abbiamo concepito il secondo. Avevo 35 anni e già nella prima gravidanza avevo dovuto fare alcuni esami prenatali, per cui questa volta ci eravamo decisi a prenotare da subito l’amniocentesi. Che qualcosa non andava, lo abbiamo intuito dalla continua domanda ‘quanti anni ha signora?’ durante un’ecografia che non finiva mai”.

Dall’esame, la bambina di Vittoria mostra un edema generalizzato su tutto il corpo. Le viene consigliata un’ulteriore ecografia con un ginecologo noto. Il luminare suppone possa esserci una trisomia: “Ci consiglia di fare, oltre all’amniocentesi, un prelievo extra di liquido amniotico e portarlo a un laboratorio che ci darà i risultati in 48 ore”.

Passa il fine settimana, intanto a casa c’è il piccolo primogenito, che non si rende conto di quello che i genitori stanno passando. “Il lunedì – riprende Vittoria – i risultati del laboratorio dicono ‘tutto normale’. Il mercoledì ci richiamano, dispiaciutissimi, spiegandoci che c’è stato un errore. E che il mio test risultava positivo alla trisomia 21, cioè la sindrome di Down.

“Ci eravamo sempre chiesti cosa avremmo fatto in un caso del genere. E ci eravamo sempre detti ‘interromperemmo la gravidanza. Ma questa volta non stavamo ragionando in astratto. Stavolta era la mia bambina, e avevo già cambiato idea”.

Quando Vittoria torna al controllo, emerge che portare avanti la gravidanza comporterebbe rischi per la sua stessa salute. “La bambina era comunque spacciata. E io, di fronte ai rischi per me, con un altro figlio a casa, ho sentito di non avere scelta. Ho chiesto qualche giorno per organizzarmi e mi hanno ricoverata per l’aborto terapeutico il 3 di novembre.

“Siamo arrivati in ospedale alle 8.30, mi hanno dato un letto, ma poi non veniva nessuno a visitarmi”. È il marito di Vittoria, intorno alle tre del pomeriggio, a decidersi a protestare con un’ostetrica.

“Finalmente si presenta questa donna, dai modi sbrigativi, ma gentili. Ci spiega che la terapia per indurre l’aborto terapeutico, che di fatto nel mio caso sarebbe stato un vero e proprio parto, consiste nell’introdurre una serie di ovuli”. L’ostetrica spiega a Vittoria che i medici obiettori si rifiutano di somministrare il primo, anche se poi sono obbligati a garantire l’assistenza per il resto del travaglio.

“La prima ostetrica – ricorda Vittoria – mi ha iniziato la terapia e mi ha trattata in modo molto umano. E anche il personale della sala parto, qualche ora dopo. Ma gli altri medici, quelli che mi hanno somministrato gli altri ovuli, sono stati sgarbati, duri, con la mano pesante.

“Ho sentito sulla mia pelle la differenza di atteggiamento tra ‘che bello stai partorendo’ e ‘che stronza stai abortendo’. A parte il ritardo nel prendere in esame il mio caso, non credo sia stata violata la legge. Ma ho sentito astio, disprezzo. La prima persona che soffriva, che sapeva di partorire un esserino destinato a non sopravvivere, ero io. Non sono una che si piange addosso, ma è stato un momento molto duro, mi è costato sei mesi di antidepressivi”.

Eppure Vittoria non ha mai pensato di denunciare la situazione, per esempio con un esposto alla direzione sanitaria: “L’atteggiamento mi ha infastidito ma non credo che una protesta avrebbe cambiato le cose”.

 

Modena, 2004: Il farmacista pio

Uno sguardo di compatimento, un tono di biasimo nella voce. La storia di Cristina, poche righe scritte via Facebook, è breve e comunque umiliante. Così ordinaria che ne accadono a decine, così “leggera” che uno potrebbe sempre risponderti “mi hai frainteso” e forse avrebbe pure ragione lui.

“Era il 2004 – ricorda Cristina – e avevo bisogno della pillola del giorno dopo. Sono andata al consultorio e me l’hanno prescritta senza problemi (dopo una breve anamnesi). Sono andata in una farmacia del centro storico per comprarla e il farmacista mi ha detto con tono molto pio e compassionevole che quel medicinale era una bomba ormonale e che era meglio evitare di prenderlo.

“Io gli ho risposto ‘lo so’, e mi sono fatta dare il medicinale. La mia faccia era una palla di fuoco, me lo ricordo benissimo. Già c’erano un mucchio di cose nella mia testa, non c’era bisogno di un farmacista che mi mettesse in imbarazzo”.

Un’impressione? Forse. Un momento di particolare suscettibilità? Senz’altro, e lo dimostrano le storie delle donne qui raccolte, e anche quelle raccontate dai loro compagni. Senza dubbio un momento in cui il confine tra sentirsi giudicate e sentirsi dare un parere professionale è molto sottile. E sarebbe bello se tutti gli operatori della sanità ne tenessero conto. Ma come si vedrà dalle ultime due storie, in molte occasioni e in molte parti d’Italia siamo ancora molto più indietro di così.

 

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Lombardia, 2002- 2014: “I colossi del timor di Dio”

A poche ore dal messaggio di Cristina (tutti i nomi di questo articolo sono stati cambiati) arriva quello di Maria, ostetrica di “un ospedale pubblico di una provincia lombarda, uno dei territori – precisa all’inizio della sua lunga lettera – in cui è fortemente radicata e ben rappresentata Comunione e Liberazione”.

Maria lavora nel settore sanitario dal 2002, ha visto l’appello a raccontare storie di “aborto, pillola e obiezione” sulla bacheca di qualche conoscente. Pochi gradi di separazione e tanta voglia di denunciare, in una lunga lettera, la situazione che vive quotidianamente.
Una situazione che si è evoluta, negli anni, dalla “via crucis della contraccezione d’emergenza” fino alla possibilità di farsela prescrivere con più semplicità, pagando comunque lo scotto di tempi di attesa allungati e incomprensibili, apparentemente solo “punitivi”.

“All’inizio della mia esperienza lavorativa – scrive Maria – in questo ospedale rinomato per l’ostetricia, la ginecologia e la terapia intensiva neonatale, quindi l’area materno-infantile i medici e le ostetriche non obiettori si contavano sulle dita di una mano. Tutte le volte che arrivava una richiesta di contraccezione di emergenza era una quasi-tragedia, tra pianti e crisi di nervi dei malcapitati, sia di giorno che di notte.

“Di giorno giravo il reparto per trovare un ginecologo prescrittore, spesso senza venirne a capo, di notte mi beccavo gli insulti di chi mi gracchiava al telefono, con la voce impastata dal sonno, ”SONO OBIETTORE!”. A quel punto, sconfitta, indirizzavo la donna/coppia altrove (una sorta di via crucis della contraccezione d’emergenza)”.

Negli ultimi quattro anni, secondo il racconto di Maria, la situazione migliora leggermente, anche grazie al ricambio generazionale, con l’ingresso nella struttura di nuovi medici giovani e molti dei quali non obiettori.

“È sempre più rara – racconta ancora Maria – la possibilità che ci sia un medico di guardia obiettore, nel senso di fondamentalista. Rimane comunque che, anche quando non c’è attività in pronto soccorso, e in tutto il reparto, chi arriva per la contraccezione d’emergenza attenda spesso interminabili ore. L’ostetrica dice ”Dottore, c’è una richiesta di contraccezione d’emergenza’. Il medico, seppur libero, risponde ‘lasciala aspettare’. E io mi chiedo, perché?”.

Se per quanto riguarda la pillola del giorno dopo il rischio è di ottenerla in ritardo (si tratta comunque di farmaci che vanno assunti entro 72 ore o al massimo, per alcune tipologie, entro 5 giorni), chi affronta l’interruzione volontaria di gravidanza si trova vittima, secondo la denuncia di Maria, di quelli che lei chiama i “colossi del Timor di Dio”.

In base ai regolamenti interni dell’ospedale in cui lavora, Maria e le altre ostetriche non partecipano alle interruzioni volontarie di gravidanza del primo trimestre, ma solo alle interruzioni che avvengono – a scopo terapeutico – oltre il novantesimo giorno di gestazione.
“In quel caso, le donne vengono ricoverate nel reparto di ostetricia dove ci sono anche le ostetriche, insieme a future mamme e puerpere. Capita, non di rado, che chi si ritrova ad affrontare quest’esperienza abbia a che fare con colossi del Timor di Dio: medici obiettori e attivisti anti-abortisti e con il loro pesante e stucchevole giudizio”, racconta Maria.

In particolare, spiega, “in caso di gravidanze frutto di procreazione medicalmente assistita: se eterologhe lo scandalo dei colossi è forte”. Maria denuncia il caso di una donna, ricoverata per le complicanze dell’amniocentesi, alla quale il medico di reparto avrebbe detto: “Cosa vuole signora, gliel’avevano detto che poteva succedere, ora sa che suo figlio non è Down, ma magari nascerà prematuro e avrà chissà quali altri problemi”.

“Allora, io mi chiedo – si conclude la lunga lettera di Maria – a cosa serve una legge che dia alla donna o alla coppia libera scelta di abortire, se poi devono comunque fare i conti col giudizio e la condanna di chi dovrebbe aiutarti, e invece ti guarda come un ‘assassino’?”.

 

Milano, 2008: “Trenta minuti di insulti”

“Io e la mia ragazza siamo rimasti incinti senza volerlo”, racconta Giovanni al telefono. Il suo messaggio su Facebook recitava: “Ho poco da dire, ma purtroppo è abbastanza grave”. “Silvia aveva già abortito, la volta precedente era stato in Puglia, ma questa volta ha preferito non dirlo ai suoi, e così siamo entrati nell’iter difficile della sanità lombarda”.

Il primo step è il colloquio con le psicologhe e assistenti sociali dell’Asl. “Erano due bigotte cielline che ci hanno insultato per quasi un’ora. Ti fanno sentire sbagliato, è il loro modo per farti cambiare idea. Silvia era un po’ più grande di me, è stato difficilissimo ma le abbiamo affrontate”.

Giovanni e Silvia escono dal colloquio con un foglietto che riporta gli orari in cui si possono fare le visite per l’interruzione di gravidanza. Ogni giorno della settimana è aperto un ospedale diverso, in un orario diverso.
“Abbiamo trovato posto solo dopo due settimane. È una situazione difficile, sia perché il tempo passa, sia perché non stavamo affrontando la cosa a cuor leggero.

“Alla clinica Mangiagalli ci hanno mandati via nonostante la prenotazione, dicendo di tornare la settimana dopo. Al Fatebenefratelli siamo arrivati mezz’ora in anticipo, io sono salito più tardi perché dovevo cercare parcheggio, e ho trovato Silvia in lacrime. Un’infermiera alla quale abbiamo chiesto informazioni ci ha gridato addosso: ‘Basta, oggi abbiamo chiuso, non si abortisce più’!”.

Logorata dall’attesa e dall’incertezza, la coppia si rivolge a conoscenti e finalmente, dopo alcuni passaggi, riesce ad avere il contatto di un medico non obiettore, in una clinica di fuori Milano. Viene fissato l’intervento, ma la mattina del ricovero c’è una manifestazione ai cancelli della struttura sanitaria.

“Avevano cartelli con immagini raccapriccianti, candele accese, e due delle manifestanti ci hanno seguito fin dentro all’edificio. Sembravano drogate dalla loro stessa disperazione. Non è giusto – conclude Giovanni – queste persone non sanno cosa stai passando, non hanno il diritto di trattarti in questo modo”.

Il numero del medico non obiettore, Giovanni lo conserva per anni. “Mi sono trovato a ‘spacciarlo’ ad altri conoscenti che ne hanno avuto bisogno, per evitare che in un momento già di per sé difficile si trovassero a subire le umiliazioni e gli insulti che abbiamo passato noi”.

 

“Il fastidio di essere costrette a supplicare per qualcosa che spetta di diritto”

Così diceva Adele Faccio 36 anni fa. Il fastidio. E l’implicita violenza di chi tenta di imporre, con parole di disapprovazione, ritardi nelle prestazioni o manifestazioni davanti all’ospedale, la propria etica – rispettabile ma personale – su una legge dello Stato.

La sesta storia è quella di Dalja, 24 anni. Vive a Malmo, nel sud della Svezia. Viene da una famiglia semplice, studia all’università di Copenhagen, a ottobre partorirà il suo primogenito. “Dovrei discutere la tesi a gennaio – racconta – quindi per un paio di mesi riceverò sia il mio stipendio come studentessa a tempo pieno, sia quello che ti spetta per la maternità.

“Senza imbrogliare, mi spetteranno entrambi. La cosa più difficile – scherza Dalja – sarà convincere mio marito, palestinese, che qui da noi si usa prendere la paternità”.

 

 


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