Le frontiere in Medio Oriente sono uno spartiacque fra il diritto e l’abuso. Luoghi dimenticati in cui gli uomini e le donne non sono tutti uguali
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/FacebookHomescreenImage.jpg[/author_image] [author_info]di Susanna Allegra Azzaro. Amo definirmi “cittadina del Mediterraneo”. Le mie origini si perdono tra Sardegna, Genova, Sicilia e Nord Africa, ma è a Roma che sono (casualmente) nata. Lavorare nella cooperazione internazionale mi ha dato la possibilità di vivere un po’ in giro nel mondo; la curiosità, invece, mi ha spinta a cercare di imparare il più possibile dalle culture con cui sono venuta a contatto. Tra il 2008 e il 2009 il lavoro mi porta in Medio Oriente e da allora esso continua ad essere una presenza costante nella mia vita. Recentemente vi sono tornata per approfondire i miei studi della lingua araba colloquiale “levantina”.[/author_info] [/author]
24 luglio 2014 – Qualche anno fa passai quasi due ore all’ultimo controllo dei documenti, quello definitivo, quello che, una volta superato, ti permette finalmente di entrare in terra israeliana.
Il ricordo di quella lunga attesa e successivo interrogatorio non aiuta a migliorare il mio stato d’animo, ma fiduciosa consegno per l’ultima volta il passaporto all’ennesima ragazza israeliana fresca di maturità.
Poche domande appena stavolta, nessun interrogatorio, nessuno sguardo inquisitorio. Tutto mi sembra troppo facile per essere vero.
In quel preciso istante ricompare l’uomo senza nome palestinese, quello grazie al quale sono lì in quel momento e non fuori sotto il sole cocente ad aspettare di fare ancora tutta la trafila.
Sto per ringraziarlo, ma lui, senza guardarmi, dice di non rivolgergli più la parola.
“Meglio per te se non vuoi storie”.
Poi prendono il suo passaporto americano, lo studiano, se lo passano, comincia il borbottamento, le occhiate sospette; il potenziale nemico è lì alla loro mercé, sono coscienti di avere il coltello dalla parte del manico, loro che fino a poche settimane fa ancora sedevano ai banchi di scuola.
Comincia il rituale delle domande e dei piccoli bassissimi giochi di potere.
Gli intimano di mettersi dritto, di rispondere con voce chiara, lo incalzano con trucchetti travestiti da domande idiote.
La dignità di quell’individuo sta subendo un duro colpo e, di nuovo, sono spettatrice inerme con l’aggravante del senso di colpa, perché a me tutto ciò viene risparmiato.
Non protesta perché sa che si giocherebbe per sempre la possibilità di poter riabbracciare la sua famiglia oggi, esegue quello che gli intimano di fare, risponde alle domande senza che la sua voce tradisca alcuna emozione. Con un tono leggermente ironico dice di essere nato nel 1945 a Ramallah, quando lo stato di Israele nemmeno esisteva.
È nato palestinese, cresciuto in un paese chiamato Israele e ora da anni vive negli Stati Uniti.
Sua madre ultraottantenne vive ancora a Ramallah ed è per lei che vuole attraversare quella frontiera.
“Ti rendi conto di cosa devo subire per tornare a casa mia?”, mi aveva detto quando ci siamo incontrati al confine giordano.
Meno male che viaggia da solo, ho pensato. Come si sarebbe sentito il figlio di quell’uomo se avesse visto suo padre a testa bassa incassare i colpi di quelle sue due coetanee israeliane?
Quanta rabbia e frustrazione possono nascere nel cuore di un individuo che vede umiliato un proprio genitore, quale modo migliore per far crescere una generazione intera con la sete di vendetta.
Lo sapevano bene i cecchini cetnici che preferivano i giovani come bersaglio rispetto agli anziani.
Uccidi un figlio e suo padre morirà dal dolore; ma se strappi un padre a un figlio, quello crescerà con la sete di vendetta, vivrà solo per fartela pagare e, prima o poi, sarà tuo nemico sul campo di battaglia.
Mi metto gli occhiali da sole e piango come avrebbe fatto una figlia. So che quello di cui sono spettatrice non è niente paragonato ai bombardamenti su Gaza o ai rastrellamenti notturni nei villaggi palestinesi, ma anche nella banale quotidianità si può cogliere la tragedia di un popolo.
Mi viene fatto cenno di passare e come un automa mi incammino verso il chiassoso parcheggio da cui partono i pulmini per Gerusalemme e Ramallah. Mi sento svuotata, inutile, mi servono un bel po’ di minuti per uscire da quello sconforto nero in cui sono precipitata.
È l’ultima volta che vengo qui, lo giuro a me stessa.
Di quell’uomo non ne ho saputo più nulla. Ho sperato fino all’ultimo di vederlo uscire, sentivo che solo ringraziandolo avrei tamponato, seppur minimamente, il senso di colpa.
Avrei voluto dimostrargli che ci può essere umanità, anche in un posto come quello, non lo avrebbe ripagato delle umiliazioni subite, ma forse un po’ lo avrebbe rincuorato, chissà.
Da allora, in suo onore, ho fatto mie le ultime parole che Tennessee Williams fa pronunciare alla sua Blanche Dubois e che fanno più o meno così: “Ho sempre confidato nella bontà degli sconosciuti”. Non è vero, non è stato sempre così, ma di tutta questa esperienza voglio che questo sia l’insegnamento che mi resta.
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