#HumanGaza17

Raccontando delle persone, delle vite, delle giornate di quelli che la guerra la pagano


di Q Code mag
@QcodeMag

25 luglio 2014 – L’ennesima punizione collettiva alla quale viene sottoposta la popolazione civile di Gaza, come tutte le altre, non porterà a nessun risultato. Sempre che il risultato non sia quello di nuovi lutti, di nuove distruzioni, di un odio che non potrà che crescere, ingrossando le fila di coloro che non hanno più alcuna fiducia in una soluzione giusta del conflitto.

Il governo israeliano, attraverso il suo esercito, ancora una volta scatena una pioggia di fuoco in risposta al lancio di razzi di qualche gruppo, come se ne fossero responsabili i civili di tutta la Striscia di Gaza. Che dieci anni fa, mentre festeggiavano la fine di un’occupazione, si sono resi conto di essere finiti reclusi in una prigione a cielo aperto. Cielo dal quale, a cicli alterni, piovono bombe.

Questa raccolta di pensieri (in quindici righe) vuole essere un racconto ‘altro’ di Gaza, reso da coloro che hanno avuto per i motivi più diversi la fortuna di incontrare l’umanità di Gaza, quella che non viene mai raccontata, da media che si ricordano di Gaza solo quando c’è un attacco, come se la vita a Gaza non fosse un inferno quotidiano. Ma anche nell’inferno la vita esiste e resiste, sempre, ogni giorno. Ed è questa resistenza di umanità che questa raccolta di voci vuole raccontare. 
Perché a un popolo si può togliere la libertà, ma non gli si può togliere l’umanità.

Se siete mai stati a Gaza, mandateci le vostre quindici righe a: redazione@qcodemag.it

Chantal Meloni, ricercatrice, docente di diritto penale internazionale – Università di Milano, ha vissuto a Gaza collaborando con il Palestinian Centre for Human Rights, ha curato il libro Is there a Court for Gaza

“Che incontro quello con la famiglia di Jaber, il vicedirettore di PCHR. Una famiglia eccezionale. A partire da Jaber, con il suo sorriso pulito e aperto, pieno di energia. Semplice ed eccezionale per un uomo che ha passato quasi 15 anni della sua vita nelle prigioni israeliane. E la maggior parte di questi in regime di isolamento assoluto. 23 ore di cella di isolamento (minuscola) e un’ora d’aria, con mani ammanettate dietro la schiena e caviglie incatenate. Tralascio le torture e i maltrattamenti a cui è stato sottoposto. Eppure non ha perso un briciolo della sua umanità. Non si è piegato alla logica dell’odio, anzi tutto il contrario. Appena uscito si è rimboccato le maniche e si è messo a servizio della sua gente in modo costruttivo e onesto, dedicando tutta la sua energia  a migliorare la situazione dei diritti umani in Palestina. Um Jaber (la mamma): indescrivibile nella sua fiera battaglia di madre palestinese. Di madre universale, dedicata anima e corpo ai suoi figli in prigione, invasa da un’energia sovraumana, divina mi vien da dire. Mai stanca, mai sconfitta. Persino oggi, la giornata più calda che si possa immaginare, con un tasso di umidità soffocante che ha lasciato tutti noi sopraffatti e spompati, lei se ne stava lì, seduta sulla stuoia a gambe incrociate, con il suo corpo robusto di 78 enne, senza aver mangiato né bevuto una goccia  d’acqua, e senza mostrare il minimo segno di cedimento o stanchezza, a raccontare con lucidità e dovizia di particolari (ed enorme fierezza) la sua vita di mamma palestinese che si batte per i diritti dei suoi figli in prigione. Ha cominciato il racconto prendendola alla larga, da prima del 1948, da quando palestinesi arabi ed ebrei andavano d’accordo. Dai suoi ricordi di buon vicinato e feste in comune con i “cugini” ebrei. E poi il disastro, il precipitare della situazione, il ruolo giocato dagli inglesi, ai suoi occhi colpevoli per aver fatto una doppia promessa, inconciliabile con se stessa, di uno stato ebraico in Palestina e, al contempo, del rispetto delle tradizioni, cultura e religione della popolazione indigena”.

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