Gaza, cercando una ragione

Né sicurezza né vendetta, per Israele, che esce indebolito da questa operazione. Perché allora?

di Christian Elia
@eliachr

 

28 luglio 2014 – Oggi dovrebbe essere un giorno di tregua. Un cessate il fuoco temporaneo, a scopo umanitario. Mentre il conteggio delle vittime, ormai, è arrivato a 1049 palestinesi uccisi (in larga parte civili) 6mila feriti, secondo fonti mediche palestinesi. Morti 43 soldati e 2 civili israeliani, secondo fonti militari israeliane.

Ogni giorno, e sono 21 dall’inizio dell’operazione Protective Edge, la conta delle vittime si avvicina a quella di Cast Lead, a cavallo tra il 2008 e il 2009. Le vittime palestinesi, all’epoca, furono più d 1400. Il dato che colpisce, invece, è quello delle vittime militari israeliane: i morti cinque anni fa furono dieci, quattro dei quali per fuoco amico.

Cosa vuol dire questo dato? Che la capacità di reazione delle Brigate Ezzedim al-Qassam (braccio armato di Hamas) e degli altri gruppi armati è stata quasi sorprendente. Non solo, vuole anche dire che l’idea dei vertici militari israeliani di entrare ogni due/tre anni in profondità nella Striscia per riportare le lancette dell’orologio nei pressi del MedioEvo, ritenendo così di fare gli interessi del proprio Paese, magari è un calcolo sbagliato.

 

Theater of war: Israelis watch, cheer Gaza airstrikes

 

Perchè l’unica vera sicurezza per Israele, quella vera e duratura, viene da un accordo globale con Hamas, simile a quelli a suo tempo raggiunti con Arafat. Un accordo che rappresenti un’exit strategy credibile per la leadership di Hamas come per la classe dirigente politica israeliana.

Un accordo che parta dalla fine dello stato di assedio di Gaza, che permetta ai gazawi di uscire, di avere acqua potabile, di pescare. Senza questo, non ci sarà mai una reale pace, non ci sarà mai la volontà politico-militare di Hamas di bloccare i gruppi armati (che nel frattempo, con tre operazioni militari pesanti in cinque anni, si sono rafforzati in modo direttamente proporzionale alla rabbia e alla fame della gente).

Davvero tutto questo il governo Netanyahu non lo sa? Difficile crederci. Allora le motivazioni di questo stato di cose, di questo ennesimo massacre, sono altre. Perché la sicurezza di Israele, come dimostrano le perdite tra i soldati e l’impressionante numero di razzi lanciati, di sicuro non arriva dalle operazioni militari. Non bastasse il dato delle vittime, basti pensare al fatto che questo attacco è riuscito nell’impresa di far riavvicinare Hezbollah e l’Iran ad Hamas.

Dal punto di vista strategico, quindi, per Israele questa operazione è fallimentare. Ma davvero non se ne accorgono? Si potrebbe dire che il rapimento e il barbaro assassinio dei tre ragazzi fosse il casus belli.

 

 

Se qualcuno avesse mai creduto a questa versione, basta leggere le dichiarazioni di Jon Donnison, della BBC, che ha rivelato – sul suo profile twitter – come il portavoce della polizia israeliana, Micky Rosenfeld, avrebbe ammesso che il premier israeliano sapeva fin dall’inizio che nel massacre dei tre adolescent Hamas non c’entrava nulla: “Il portavoce mi ha detto che gli uomini che hanno ucciso i tre coloni israeliani sono una cellula separata, affiliata ad Hamas, ma non operante sotto la sua leadership. Ha anche detto che se il rapi­mento fosse stato ordinato dai leader di Hamas, lo avrebbero saputo prima”.

Anche questa, come motivazione, crolla. Né sicurezza, né vendetta. Cosa allora? Di sicuro non il consenso mondiale alla sua politica. E’ sotto gli occhi di tutti che mentre i media mainstream si affannano a raccontare con un’equidistanza a tratti surreale, le piazza di mezzo mondo (anche a Tel Aviv) si riempiono di persone solidali con Gaza, in modo pacifico. Altre volte, come è accaduto a Parigi o altrove, in modo non pacifico. Quindi anche da questo punto di vista il bilancio è fallimentare.

Cosa allora? Una delle tesi più interessanti su cui lavorare è quella che parla del controllo della Striscia con un fine ben preciso: impedire una qualsivoglia forma di autogoverno reale (non quindi un assedio senza senso) per controllare le risorse naturali di Gaza.

Chiunque ha visto Gaza sa benissimo che si parla di uno dei luoghi più poveri del mondo, ma la sua ricchezza starebbe in quello che non si vede, non in quello che si vede. Sotto i piedi e sotto il mare di Gaza, secondo fonti autorevoli, ben analizzate e raccontate dal geografo Manlio Dinucci, c’è un importante serie di giacimenti di gas. Il tema viene rilanciato anche dal Guardian.

 

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Già nel 2009, subito dopo Piombo Fuso, ne scrivemmo su PeaceReporter, ma si può risalire fino al 2007, per trovare un insospettabile Davide Frattini del Corriere della Sera che parlava di guerra tra Hamas e Fatah per il controllo dei proventi del gas.

Ecco che l’accordo Hamas-Fatah prende, per Israele, i toni del pericolo imminente. La loro divisione è sinonimo di controllo della situazione, il perenne rimandare il riconoscimento dello stato palestinese è una garanzia per il controllo economico del conflitto. Che già per l’industria bellica è un business di suo.

Uccidere mille persone per un giacimento di gas, mandando a morire i propri cittadini? Non si tratta di questo, sarebbe retorico e cinico ridurre il discorso in questi termini. La totale sottomissione dell’identità palestinese, però, nei Territori Occupati, a Gaza, come nella stessa Israele, serve per controllare fino in fondo un territorio scarso di risorse, dove Israele deve vivere e sopravvivere.
E per il gas, come per l’acqua in Cisgiordania, o per la terra in generale, non si bada a spese.

Non tenere conto anche di questo elemento, non in via esclusiva, ma come parte di un quadro globale, non aiuta a capire la drammatica complessità di un conflitto dove la violenza non serve a nulla, ma dove la pace giusta non la cerca nessuno. Un accordo che, tolte le macerie, affronti tutti i nodi gordiani del conflitto, partendo da un presupposto chiaro: la terra, l’acqua, le risorse non sono sufficienti. Bisogna trovare una soluzione che non sia la guerra.

 

 

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