#HumanGaza20

Raccontando delle persone, delle vite, delle giornate di quelli che la guerra la pagano


di Q Code mag
@QcodeM

28 luglio 2014 – L’ennesima punizione collettiva alla quale viene sottoposta la popolazione civile di Gaza, come tutte le altre, non porterà a nessun risultato. Sempre che il risultato non sia quello di nuovi lutti, di nuove distruzioni, di un odio che non potrà che crescere, ingrossando le fila di coloro che non hanno più alcuna fiducia in una soluzione giusta del conflitto.

Il governo israeliano, attraverso il suo esercito, ancora una volta scatena una pioggia di fuoco in risposta al lancio di razzi di qualche gruppo, come se ne fossero responsabili i civili di tutta la Striscia di Gaza. Che dieci anni fa, mentre festeggiavano la fine di un’occupazione, si sono resi conto di essere finiti reclusi in una prigione a cielo aperto. Cielo dal quale, a cicli alterni, piovono bombe.

Questa raccolta di pensieri (in quindici righe) vuole essere un racconto ‘altro’ di Gaza, reso da coloro che hanno avuto per i motivi più diversi la fortuna di incontrare l’umanità di Gaza, quella che non viene mai raccontata, da media che si ricordano di Gaza solo quando c’è un attacco, come se la vita a Gaza non fosse un inferno quotidiano. Ma anche nell’inferno la vita esiste e resiste, sempre, ogni giorno. Ed è questa resistenza di umanità che questa raccolta di voci vuole raccontare. 
Perché a un popolo si può togliere la libertà, ma non gli si può togliere l’umanità.

Se siete mai stati a Gaza, mandateci le vostre quindici righe all’indirizzo: redazione@qcodemag.it

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Elisabetta Filippi – Associazione Zaatar Onlus 

Sono stata nella Striscia di Gaza nel 2002, durante la seconda intifada, con altri attivisti dovevamo testimoniare le condizioni in cui vivevano i palestinesi nella Striscia. All’epoca la Striscia era occupata dall’esercito israeliano e non avevano ancora smantellato le colonie, la Striscia era divisa in due da un check point.

Io ricordo alcuni episodi in particolare. L’accoglienza giocosa e aggressiva dei ragazzini di Rafah, in quel periodo era la zona più colpita perché Israele stava creando la zona cuscinetto al confine con l’Egitto, per farlo sparava e uccideva quotidianamente contro le abitazioni e i civili, per fargli lasciare le case, che venivano distrutte e rase al suolo. Ricordo che se infilavi la mano nella sabbia venivano fuori pezzi di vita, resti di vestiti, cucchiai, giocattoli… i bambini di Rafah sapevano imitare il suono dei missili e dei proiettili e vivevano scalzi in mezzo a scheletri di palazzi crivellati dai proiettili delle mitragliatrici.

Poi ricordo che siamo entrati in una casa nel campo profughi di Jabalia, c’era solo una bimba di 10 anni e dentro ad una culla un neonato, il fratellino, accudito dalla bambina perché la madre si trovava in ospedale con un fratellino malato. Il neonato appariva scarno e denutrito, con la pelle secca, sembrava di pochi giorni, accanto un biberon con del latte, ci si strinse il cuore e impotenti, non potemmo fare altro che lasciare le nostre bottiglie di acqua sigillata per preparare il latte del neonato, dal momento che non c’era (e non c’è) acqua potabile.

In un centro per i diritti umani, il responsabile ci accolse mestamente, ci mostrò su un lungo tavolo alcuni pezzi di missili, proiettili, mine e quant’altro, raccolti nei dintorni, rimasi stupita per l’incredibile varietà di mezzi utilizzata da Israele per uccidere. Il centro aveva una finestra forata da un proiettile e da questa finestra si vedeva il cortile di una Università affollata di giovani. Quando ci congedammo dal centro, il responsabile ci salutò con le lacrime agli occhi. Oggi vedo la stessa prigione e sento lo stesso disperato bisogno di intervenire, ma vedo anche la stessa ignavia e lo stesso disinteresse del mondo occidentale.

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