Immagina la Palestina

Racconto di un quotidiano passaggio a un check – point in Cisgiordania

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/08/Clara-Capelli-NFC-Tunis-2013-Picture.jpg[/author_image] [author_info]di Clara Capelli, @clariscap, da Beirut. Dottoranda in economia dello sviluppo con la passione per la lingua araba, si occupa di mercato del lavoro in Nord Africa e Medio Oriente. Ha lavorato in Cisgiordania, Libano e Tunisia, ma non ha ancora capito quale Paese le piaccia di più. [/author_info] [/author]

30 luglio 2014 – Era la primavera del 2009, quando vivevo a Betlemme, scrivevo la tesi e stavo a poco a poco imparando il lessico e la grammatica della Palestina. Non le nozioni diligentemente imparate su libri e giornali, ma i dettagli di vita messi in ombra dalla Storia, dalle narrazioni di una terra dove tutto è in primo luogo politica: i riti della quotidianità, i comportamenti e le abitudini, le regole di una società in cui si continua a lavorare, metter su famiglia, vivere nonostante il conflitto e l’occupazione.

Da Betlemme dovevo recarmi a Gerusalemme e, come al solito, presi l’autobus che passava per la cittadina di Beit Jalla. Allora agli stranieri era permesso prendere quella via. Si pagavano pochi shekel (i taxi, specialmente quelli autorizzati a passare il “confine” sono piuttosto cari in Cisgiordania) e soprattutto non si rischiava di rimanere in coda di fronte al Muro. C’era solo un checkpoint, dove per altro in quel periodo i controlli erano abbastanza rapidi. Se andava bene in mezz’ora si copriva la decina di chilometri che separa Betlemme da Gerusalemme.

Arrivati al checkpoint si doveva scendere dall’autobus e disporsi in due file per il controllo dei documenti, da una parte i palestinesi, dall’altra gli stranieri. Oltre a me c’era solo una coppia di turisti americani sulla sessantina. Niente di inconsueto, perché chi visita Betlemme di solito lo fa con un viaggio organizzato: si arriva alla Basilica della Natività, qualche foto di fronte al luogo dove si crede fosse la mangiatoia, si acquistano dei souvenir e dopo un paio d’ore via verso un’altra meta. Tutto ovattato, asettico, i palestinesi rimangono sullo sfondo e il Muro è solo una barriera davanti a cui si forma una coda di vetture e si perde la pazienza perché il tempo e poco e le cose belle da vedere sono tante.

 

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Attendevo il mio turno, passaporto in mano e musica nelle orecchie. Passavo da lì almeno due volte a settimana, ormai per me era routine. Scendi, ti metti in fila, mostri il passaporto, risali, riparti. Ma quel giorno no, quel giorno qualcosa andò diversamente.

Alzai gli occhi e vidi un soldato israeliano dire a un’anziana signora palestinese di spostarsi un poco più a destra. La donna obbedì. No, non andava bene, che facesse qualche passo a sinistra. La donna obbedì, di nuovo. No, ancora no, su, a destra. Sempre composta, la donna obbedì una terza volta. Il soldato, soddisfatto, ridacchiò qualcosa con un collega, un biondino magrissimo e brufoloso, probabilmente fresco di leva militare.

Io ero attonita. “Si fa fatica anche solo a immaginarselo”. Era il signore americano a commentare con me al scena. E in quel momento mi scattò qualcosa. Avevo paura a immischiarmi, temevo la reazione del soldato israeliano, non volevo avere grane. Se mi sbattono fuori addio Palestina, addio tesi, addio borsa di studio e chi li sente i miei genitori e il mio relatore. “Si fa fatica anche solo a immaginarselo”. No, era inaccettabile per me. E intervenni. Indignata, dissi al soldato che si doveva vergognare, che quella donna avrebbe potuto essere sua nonna e che in quanto anziana le doveva rispetto. Che non aveva fatto nulla e quindi lui non si doveva permettere quell’arroganza. Il soldato mi guardò indispettito, intimandomi di farmi gli affari miei, perché ero straniera e non sapevo nulla di Israele. L’americano mi mise una mano sulla spalla, protettivo, e cercò di mediare. “Avanti, non c’è bisogno di prendersela con questa signorina”, disse. Alla fine il soldato bofonchiando cose in ebraico che non capii, terminò i controlli e ci lasciò salire tutti sull’autobus e ripartire.

Ero scossa, molto. Per un attimo avevo avuto seriamente paura di essermi guadagnata l’espulsione per direttissima. O forse no, il soldato non mi avrebbe fatto nulla, però un poco avevo comunque rischiato. Eppure ero anche in qualche modo fiera di me, ero stata coraggiosa a sufficienza per prendere le difese di quella donna, per non voltarmi dall’altra parte o stringermi nelle spalle perché tanto questa è la situazione ed è meglio per tutti evitare i guai.

Ma fu proprio la signora a sradicare duramente ogni mio timido pensiero di compiacimento. Sull’autobus mi sgridò. Non parlavo bene il palestinese, ma afferrai l’essenziale. Stava andando a trovare una delle figlie, sposata a un palestinese di Gerusalemme, e se il soldato israeliano si fosse arrabbiato lei avrebbe rischiato di rimanere bloccata al checkpoint. Anzi, tutti i passeggeri avevano corso quel rischio. Per colpa mia. Perché non avevo tenuto la bocca chiusa, perché “loro” non vanno provocati. Se mi avesse presa a schiaffi mi sarei mortificata di meno. Ero stata imprudente e supponente e avevo sbagliato.

Sono passati cinque anni e ancora provo una profonda vergogna quando ripenso a questa storia. È la prima volta che la racconto e anche ora che scrivo sono divorata dall’imbarazzo. Tuttavia, in questi giorni in cui si fa un gran parlare di Gaza, Hamas e Israele – di chi è la colpa, chi ha iniziato prima, perché dalla Striscia si lanciano quei razzi – ho pensato a quanto emblematico sia quell’episodio. La metafora di come noi “stranieri” leggiamo questo conflitto.

Perché il sentimento comune è che in fondo ci aspettiamo che i palestinesi debbano fare come la signora. Devono comportarsi bene, essere pazienti, rispettare le regole. E poco importa chi le ha fissate e come vengono applicate. Il soldato è maleducato? Ecchesaràmai, fai quello che dice e non avrai problemi, la tua vita andrà avanti tranquilla, vedrai i tuoi figli, comprerai le cose che vuoi e così via. Non sgarrare, non ribellarti, non andartela a cercare. Altrimenti peggio per te.

Ma se il problema non fosse il soldato prepotente? Se il problema fosse il doversi mettere in fila a un checkpoint per andare a visitare i propri cari, sempre sperando che ai controlli non salti fuori qualcosa che non va nei documenti? Se il problema fosse il Muro che si è mangiato la terra di tanti palestinesi, gli spostamenti che richiedono ore per pochi chilometri, il dover chiedere sempre un permesso per muoversi, costruire una casa, procurarsi i materiali per avviare qualsivoglia attività?

Questo chiediamo alla Palestina. Di conformarsi ogni giorno alle nostre aspettative di buona educazione, di confortarci offrendoci un’immagine rassicurante, calma e pacifica e remissiva, perché appena si alza la testa li etichettiamo come terroristi, bestie violente. Così un giorno saranno degni di negoziare – cosa ormai non si sa più – con Israele, cui tutto si giustifica in nome del diritto alla sicurezza e alla difesa. Senza mai domandarci se in Israele ci sia davvero la volontà politica di trattare alcunché.

Mettiti un po’ più a destra. Ora a sinistra. No, di nuovo a destra. E tu lo fai. Spingendo ogni giorno un po’ più in là l’asticella della dignità per vivere. In attesa di qualcosa per cui pare non sarai mai pronto né degno.

 

 

 

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