Digiunare per vivere

Le “donne del digiuno”, nella Palermo scossa dalla morte del giudice Paolo Borsellino, tornano in una mostra fotografica, 22 anni dopo la protesta per chiedere giustizia e verità

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/03/Sara.jpeg[/author_image] [author_info]di Sara Lucaroni, @LucaroniS. Nata ad Arezzo nel 1980, giornalista professionista, si è laureata con una tesi sulla metafisica cartesiana. Si occupa di sociale, lavoro, politica, storie di sport. Ha collaborato con Italia7, TV2000 e Globalist. È coautrice di un romanzo sulla disabilità e autrice di due documentari: sull’immigrazione, “Chi siamo noi” e sulla Resistenza, “Diari di Guerra”.[/author_info] [/author]

15 agosto 2014 – 21 luglio 1992. Un giorno che dura da ventidue anni. Sgomente, mescolate alla folla, di ritorno dalla cattedrale in cui si sono appena svolti i funerali degli agenti della scorta di Paolo Borsellino, amiche e compagne si incrociano, si prendono per mano, decidono di darsi appuntamento all’Udi, Unione delle Donne in Italia. Ma la militanza non c’entra.

La proposta di organizzare un digiuno neanche un’ora dopo è la reazione che in 11 scelgono per esternare il dolore, manifestare la rabbia. Una rabbia costruttiva, determinata, lucida. Una protesta fisica, il bisogno di “fare” per vivere, simbolicamente “mangiare”, la cifra di una rivolta. Per 30 giorni, fino al 23 agosto, artiste, cittadine, mogli, madri e sorelle di vittime della mafia, trasformano piazza Castelnuovo nel simbolo di una urgenza non più rimandabile: giustizia e verità, forte come l’istinto della fame.

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Quel digiuno, a turni di tre per tre giorni ciascuna, spicca nel panorama di iniziative e indignazione che cercò di riscattare l’annus horribilis di Palermo e dell’Italia: il 23 maggio l’attentato al giudice Giovanni Falcone e il 19 luglio al giudice Paolo Borsellino. I lenzuoli bianchi sui balconi della città, i sit –in, le marce, le occupazioni, la richiesta unanime di dimissioni di consiglio regionale, prefetto, questore, procuratore della Repubblica e capo della Polizia, furono la rumorosa protesta civile che incorniciò gli occhi silenziosi di Bice, Letizia, Daniela, Pina, Anna, Carla e le altre.

Occhi che quella fame ce l’hanno ancora e non hanno mai smesso di sentirla. Il fotografo Francesco Francaviglia li ha cercati e li ha ritratti in “Le donne del Digiuno”, una mostra visitabile fino al 23 agosto a Palazzo Ziino, a Palermo, e dal 13 ottobre al 9 novembre a Firenze, alla Galleria degli Uffizi. Trenta storie, trenta ritratti, per scoprire che la retorica dell’antimafia, i fronzoli dei proclami, le lapidi e le commemorazioni con le autorità, sono ancora poco più che rumore di fronte a volti e sguardi che hanno interiorizzato una verità e una giustizia che non c’era, e che ancora non c’è.

“Da fotografo non potevo che pensare di attraversare la loro esperienza, e raccontare quella storia, fotografandole”- spiega l’autore, 32 anni, che da Firenze è tornato nella sua Sicilia per curare il progetto e riannodare molti fili. “Ci sono storie che ti emozionano al punto da impedirti di restarne spettatore. Dopo pochi giorni ero a Palermo, con il minimo indispensabile dell’attrezzatura che ritenevo utile, e passo dopo l’altro riuscivo ad avere i primi approcci telefonico con quelle donne”.

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Un fondo nero, cavalletto e una luce dura, che non nasconde ma fissa e sfoca, mostrando rughe ed espressioni, gli indizi di ogni singola storia personale. Come quella della vedova di Libero Grassi, ucciso per il suo no al pizzo. Quella di Luisa Morgantini, ex vice presidente del parlamento europeo, o dell’attivista Michela Buscemi, i cui due fratelli sono stati uccisi perché lavoravano senza il consenso della mafia. E di Rita Borsellino, che non partecipò, ma lesse il volantino/manifesto di quella protesta e ne rimase colpita.

Vissuti personali come quello dello stesso Francesco, il cui zio, giovanissimo, venne ucciso perché i Brusca, i boss di San Giuseppe Jato, paese di origine della sua famiglia, lo credevano autore di un danno ad una loro proprietà. Da poco, racconta, anche grazie all’incontro con le protagoniste del digiuno, ha avuto la possibilità di conoscere e affrontare la storia di quello zio, e il senso di un impegno “fisico”, la necessità di lottare mettendoci la faccia. “Qualche mese fa ho avuto il piacere di fotografare una folla di bambini e adolescenti che animavano una delle vie principali della città urlando slogan contro il pizzo – racconta. Quando io invece frequentavo le scuole medie le classi si svuotavano nei giorni in cui era annunciata la partecipazione ad una manifestazione contro la mafia”.
Considerare eroi ed eroine chi lotta contro la mafia, significa “delegare” la lotta alla mafia, che ha perso il potere militare di un tempo, ma è forte più che mai, perché ha i suoi uomini direttamente dentro le istituzioni. I ritratti che escono dal nero, sono soprattutto un simbolo su cui riflettere. “Sul cambiamento socio-culturale ho fiducia nelle nuove generazioni- spiega Francesco. In un’intervista del 1983, ma attuale più che mai, Chinnici sottolinea ad un’allora studentessa universitaria Franca Imbergamo, oggi magistrato della Procura Nazionale Antimafia: ‘Il pericolo maggiore sta oggi nella rassegnazione, nella tendenza a considerare la mafia quasi come un male inevitabile della nostra epoca…c’è bisogno di cittadini responsabili’ “.

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