Intervista a Laura Catapana, regista del documentario Aici…adica acolo, viaggio tra i figli dell’immigrazione in Romania
di Cristina Bezzi, tratto da Osservatorio Balcani Caucaso
16 agosto 2014 – Laura Capatana, con il suo documentario “Aici…adica acolo”, affronta il tema dei bambini left behind in Romania. Prendendo le distanze dai casi sensazionalistici spesso riportati dai media ci accompagna dentro la quotidianità di due adolescenti, dando voce al loro punto di vista.
Perché hai deciso di occuparti della tematica dei bambini left behind , i bambini i cui genitori sono migrati all’estero per lavorare?
Ho iniziato ad occuparmi di questo tema nel 2007 quando scrivevo come giornalista per alcuni quotidiani tedeschi. Come giornalista mi ero occupata principalmente di casi altamente drammatici, bambini che si erano suicidati o che avevano avuto problemi con la giustizia a seguito della migrazione dei loro genitori. In quel periodo avevo girato tutto il paese, in particolare la Transilvania. Per circa sei mesi ho incontrato e parlato con tante famiglie, bambini e anche sociologi, psicologi e assistenti sociali che si occupavano dei bambini cosiddetti left behind .
Il fenomeno è molto esteso in Romania e sono tanti quei bambini che hanno uno o entrambi i genitori all’estero. Durante questa ricerca ho realizzato come generalmente questi bambini sono bambini “normali”, solo alcuni di loro rappresentano dei casi speciali, come quelli di cui mi ero occupata nei miei articoli, ma tutti sono accomunati da un senso di vuoto e di tristezza.
Così è nato il mio interesse a capire meglio questo senso di vuoto, anche perché la loro vita mi ricordava in parte la mia esperienza di adolescente: a 14 anni sono andata via dalla casa dei miei genitori per studiare in un’altra città; mi ricordo bene quanto mi mancassero. Il mio desiderio era di capire quello che pensano questi adolescenti e dare loro voce.
Nel mio documentario ho voluto raccontare la vita di una famiglia normale, una famiglia i cui genitori sono partiti per la Spagna quando le figlie Sanda e Ani erano ancora piccole. Nel momento in cui abbiamo girato il documentario le ragazze erano adolescenti, vivevano con i nonni, frequentavano la scuola e non avevano particolari problemi economici. Una situazione che mi ha quindi permesso di concentrarmi sul loro stato emotivo.
Come sei riuscita ad entrare in modo così intimo nella vita della famiglia di Sanda a Ani? Immagino che essendo una tematica così scottante e attuale non sia stato facile .
Trovare il soggetto giusto, la famiglia giusta, non è stato facile. Le persone avevano paura che avrei potuto parlare di loro come uno di quei casi di cui si sente parlare alla televisione, casi speciali, che non sono generalizzabili alla situazione di tutti i bambini che vivono con i genitori lontani.
Un giorno proprio quando mi stavo scoraggiando e stavo per abbandonare l’idea di girare il documentario, ho visto una fiction su Youtube. Un gruppo di ragazzi adolescenti sotto la guida di un loro professore avevano girato un piccolo filmato che raccontava la storia di un’adolescente che in seguito alla partenza dei genitori per l’estero, decide di suicidarsi. Così ho contattato il professore di questa scuola di Sighet, dove la percentuale dei ragazzi che hanno i genitori all’estero è altissima. Il professore è stato disponibilissimo e mi ha aperto le porte della scuola. Sono andata a Sighet e abbiamo deciso di organizzare un workshop con un gruppo di otto adolescenti che avevano i genitori all’estero.
Ho insegnato loro ad usare la videocamera ed ho spiegato loro che avevo intenzione di girare un documentario su quell’argomento e piano piano sono diventata loro amica. Stavo a Sighet per due o tre settimane poi tornavo a casa e poi tornavo altre due tre settimane da loro.
Un giorno Ani mi ha invitata a casa e lì ho conosciuto anche la sorella più grande Sanda e la nonna e subito c’è stato un ottimo feeling. Ho chiesto quindi alla nonna se potevamo sentire i genitori di Sanda e Ani per chiedere il permesso di girare il documentario nella loro famiglia. La nonna con tono tra il serio e lo scherzoso mi ha fatto notare che anche se i genitori avessero dato il consenso era lei quella a cui dovevo chiedere, non solo perché anche lei sarebbe stata presente nel documentario ma soprattutto volendo intendere che sin da quando erano molto piccole le due nipoti erano state cresciute da lei.
La nonna è una figura centrale nel documentario…
Il padre è partito la prima volta quando le figlie avevano 4 e 8 anni, e più tardi è partita anche la madre. I genitori in Spagna lavoravano molto, con l’obiettivo di finire la costruzione della casa nuova che è adiacente a quella dei nonni. Ma la casa non finiva mai, passavano gli anni e le figlie sono diventate adolescenti e i genitori hanno continuato ad essere distanti, a lavorare molto senza realizzare appieno la sofferenza delle figlie perché non erano lì quando loro piangevano o quando avevano momenti di tristezza.
Le figlie quando i genitori sono partiti erano molto piccole, hanno subito la situazione e non hanno avuto potere decisionale di fronte alla scelta migratoria dei genitori.
La nonna invece è quella che capisce tutto, perché vede nel quotidiano le nipoti e realizza nella vita di tutti i giorni il loro senso di vuoto. Capisce che quella casa così grande forse non è indispensabile per una famiglia e che per finirla ci vorrà molto tempo, tempo nel quale le figlie stanno crescendo e stanno diventando donne. Spesso la nonna si lamenta quando arrivano a casa i pacchetti con i regali e realizza che a volte i soldi sono spesi in modo superfluo e inopportuno perché il costo di quei regali è la distanza dalle figlie.
Nella regione del Maramureș vi sono molte grandi case, spesso vuote. Le persone in questa zona sono molto orgogliose e quindi per loro è importante poter mostrare ai vicini che anche loro hanno una casa enorme. In realtà però quasi nessuno poi ci vive.
Posso chiederti se sai se i genitori hanno mai pensato di portare le figlie con loro in Spagna?
Si, avrebbero voluto, ma poi hanno realizzato che dovendo lavorare molto duramente alla fine le figlie sarebbero rimaste sempre da sole e quindi hanno deciso di lasciarle a casa con la nonna.
Ma che lavoro facevano i genitori prima di partire? Riuscivano a vivere dignitosamente prima della loro partenza?
Tutti e due lavoravano ma sicuramente con la loro paga era difficile vivere dignitosamente.
Come hanno reagito i genitori quando hanno visto il documentario?
Nel 2012 quando ho finito il documentario la famiglia di Sanda e Ani è stata la prima a cui l’ho fatto vedere e in quel periodo erano in Romania anche i genitori, rientrati dalla Spagna per le vacanze. Durante il documentario il papà è stato zitto tutto il tempo, mentre la madre, soprattutto davanti alle parti più dolorose rideva e cercava in qualche modo di compensare la tensione emotiva nel vedere la sofferenza delle figlie.
Poco dopo la visione del documentario i genitori sono tornati a vivere in Romania. Forse anche a causa della crisi economica e del fatto che il papà aveva perso il lavoro, ma anche in seguito alla visione del documentario.
E sono andati tutti assieme a vivere nella casa nuova?
No, quella non è mai stata terminata, continuano a vivere tutti a casa dei nonni. Il padre ha trovato un’occupazione nel settore del legname e la madre lavora all’interno dell’Ikea. Quella casa grande è rimasta quindi vuota. In quella casa, soprattutto Ani ha passato molto tempo mentre i genitori erano distanti. Spesso da sola, spesso triste e infatti si chiede: “Ma quando arriverà il momento in cui si andrà a vivere assieme in questa casa? Arriverà forse quando noi saremo già adulte?”.
Paradossalmente quello che ha rappresentato per tutti il motivo della separazione è il simbolo dell’unità famigliare. Quella casa rischia di non venire mai terminata. Quando i genitori hanno deciso di rientrare le figlie, oramai adulte, stanno iniziando una propria vita indipendente.