Partire per capire. Viaggio nella Bolivia profonda, sguardi tra donne, uomini e bambini
di Gabriella Ballarini, da Riberalta (Bolivia).
Avevo tutto, tranne tutto il resto
26 agosto 2014 – Viaggio nella Bolivia amazzonica, mi preparo per navigare il rio Madre de Dios e faccio lo zaino.
Ci metto dentro il passaporto, la Canon e tutto quello che mi viene in mente per avere un bagaglio leggero, per quando lasceremo la nave e ci addentreremo nella foresta, in moto, perché si deve esser leggeri.
Pronta. Il pick-up ci porta al porticciolo, scendiamo per una discesa feroce, che un viaggiatore, almeno all’inizio, dovrebbe essere in grado di capire cosa verrà dopo, ma ora è importante non cadere, con il sacco con le lenzuola e tutto il resto, l’importante è restare in piedi.
Il capitano ci accoglie sulla nave con un sorriso, breve, che bisognava esser veloci per coglierlo e portarselo in viaggio: il sorriso del capitano. Le nostre cabine sono belle, cabine da navigatore spartano, cucina per prepararsi un riso con un pezzo di carne, il bagno con il suo topo, che tanto c’è sempre un topo in bagno, la sala macchine, che poi quando il riso è pronto ci appoggiamo sul tavolo e mangiamo insieme.
Tutti i colori del rio hanno qualcosa da raccontare, dalle linee grigie della sabbia sezionata perfettamente, il verde della foresta, come il contorno di un mare finito, come il ricamo scuro sul rosa del tramonto. Ci insabbiamo, nella notte, che si dice che sul fiume non si debba mai navigare di notte, quindi a mezzanotte ci fermiamo, si fermano i motori, tutti a dormire, che alle sei si salpa alla volta di Limon e poi ci si incammina.
La notte è silenzio fluviale, che un po’ dondoli, ma un po’ ti immagini cosa sta facendo il fiume, cosa si dicono le sue creature, perché tu? Perché sei finita su quella barca?
È mattino, ci facciamo il caffè e poi si salpa, succo di frutta al mango, quello buono, che ti mette in moto. Arriviamo a Limon, in un istante, eccoci. Sbarcano le moto che si arrampicano al bordo del fiume, prepariamo un altro zaino, leggero, che tanto stasera si torna alla barca.
Che ci metto nello zaino? Ci metto quello che serve.
Saliamo sulle moto, tre per ogni moto, i nostri autisti partono, eccola, la foresta.
Facciamo il primo tratto di strada, ma qualcosa non funziona, la strada è dissestata, in tre perdiamo l’equilibrio, bisogna scendere, bisogna camminare.
Camminiamo e poi risaliamo sulla moto, ma solo per poco, poi camminiamo ancora, scivoliamo, raccogliamo un bastone, camminiamo ancora. Il sole tenta di asciugare il fango, ma l’argilla è sapone sotto i piedi e sotto le ruote. Camminiamo. Attraversiamo pozze d’acqua profonda, parliamo per distrarre gli animali, le vipere, per distrarci, il tempo passa, noi continuiamo a camminare. Risaliamo sulla moto, slitta, scendiamo. Passano due ore, finalmente arriviamo, esauste, incredule. Ci accolgono gli abitanti della comunità di Tres Estrellas, io guardo a terra, distrutta dalla strada e continuo a chiedermi come si possa vivere qui. Il capo villaggio ci dice: stasera dormirete qui, se dovete visitare altre comunità, non riuscirete mai a partire nel pomeriggio. Tranquilli, qui albergo a Tres Estrellas!
Cosa avevo messo nello zaino?
Non abbiamo acqua, non abbiamo cibo.
Tutto quello che ci viene in mente lo abbiamo lasciato in barca.
Ci rimettiamo in moto, questa volta ci accompagnano, siamo quattro moto, in due si viaggia meglio, non cadiamo, solo un tratto lo faccio a piedi, ma la moto è spossante, sale e scende e attraversa ponti di legno non assicurati e pozze e strisce d’argilla. Arriviamo al Carmen, la seconda comunità che ci accoglie. Stremata mi appoggio ad una sedia, mi accascio, non riesco a parlare. Sono preoccupata, non ci credo che ci sia voluta un’altra mezz’ora di moto per arrivare qui, che se non hai la moto sono altre due ore a camminare.
Camminare. Oppure stare fermi. Mi raccontano che se stai male, non c’è nulla da fare, devi viaggiare un giorno intero per arrivare alla città più vicina e poi ci vogliono soldi e poi ci vuole la forza di mettersi in viaggio.
La forza di mettersi in viaggio.
Li guardo in volto, uno ad uno, i bambini che ci fissano e io che non riesco a parlare, che non riesco nemmeno a respirare, che non bevo da tutto il giorno e quello che mi offrono non lo posso bere, altrimenti mi sento male e se mi sento male, dove vado?
Ho sete. Una sete che non so descrivere. Abbiamo un litro d’acqua in 4 fino al ritorno, il giorno dopo. Sembra un tempo infinito. Ci sono i battesimi e la preghiera alla Madonna del Carmen. Le domande: tornerete? Non è che vi dimenticherete di noi? Io balbetto qualcosa di fronte all’assemblea, sono debole, sto in piedi a fatica, faccio fatica. Dico loro che non so se torneremo. È la prima volta che dico che non so se torneremo. So che non torneremo, questa volta lo so. Mi si stringe il cuore, mi si stringono le parole e dico che non sono capace a dire bugie, che a me le bugie mi si mangiano in bocca, che non posso dare la mia parola.
Mi metto di fronte alla chiesetta, mi siedo e mi addormento sul pavimento di terra, sconfitta, dopo aver trovato ristoro mangiamo un’arancia buonissima, succosa, una parentesi di infinito.
Ci rimettiamo in viaggio, per tornare a Tres Estrellas, una di noi rimane con la terza moto, ma tra cinque minuti si mettono in viaggio anche loro.
Ripercorriamo la strada, la foresta è fitta con i suoi alberi immensi, la luce fa fatica a filtrare, alle quattro del pomeriggio, era già tardi, era già scuro.
Francesca non arriva e la luce sta calando. Francesca non arriva.
Mobilito tutto il villaggio perché vadano a cercarli, che non me ne frega niente che nessuno sia preoccupato, io sì. Io vivo a Milano, io mi preoccupo. È un mio diritto, mi sono detta.
È notte e lo stesso vedo mille occhi che mi guardano e cercando di capire dove risieda la mia preoccupazione. Qui dove andare nella foresta di notte è normale, qui dove tanto le tigri non ci attaccheranno, non per questa notte.
Cammino e faccio camminare gli altri, mando una moto a cercarla, ma poi Francesca arriva, un po’ spaventata, un po’ incredula di aver viaggiato di notte, sulla moto, con la strada sterrata, con i rumori dell’amazzonia nelle orecchie.
Scende la notte e una candela ci scalda il cuore, con il piatto di riso e pesce, tutta la famiglia attorno, ma noi non la vediamo, sentiamo il respiro, sentiamo i sussurri dei bambini e il camminare dei cani sotto il tavolo.
Risaliamo in moto, raggiungiamo la scuola, dove passeremo la notte. Dalle pieghe del buio si avvicinano le luci dei fari delle moto, con una coperta, una tenda, un’altra coperta, un sacco a pelo, alla fine abbiamo tutto, chiudiamo le tende ed è silenzio amazzonico.
Il cielo stellato, poi, quello non ce lo potremo dimenticare mai, che si vedeva proprio tutto e Teresa che mostra al Profe, la via lattea.
La mattina arriva il giorno nuovo, sembra passato un mese, è passato un giorno.
Il Profe ci accoglie nella sua casa per la colazione, il riso e il pesce, come in una cena importante, poi il pompelmo, poi il mate, insomma quasi me lo dimentico che ho sete.
Quasi. E la radio parla di Gaza e la batteria della macchina che fa andare la radio.
La mattina scorre tra ringraziamenti e sorrisi e mezze frasi e poi ci intervistano: come si vive da voi? Cosa fanno le persone durante la giornata? È tanto diverso? La ragazzina prende appunti e quasi non lo so cosa sto dicendo. La ragazzina prende appunti e inizia a piovere nella foresta e dobbiamo scappare. La ragazzina prende appunti e Celine mette in moto, non saliremo mai veramente sulla moto, faremo 300 metri e poi sarà camminare e poi la spola con l’altra moto e i miei pantaloni si fanno pensati sotto la pioggia, si strappano, mi trascino appesa al mio bastone, che poi finirà nel fiume. Lo vediamo, il fiume, il rio Madre de Dios si apre di fronte a noi, noi che avevamo tutto, ma non avevamo tutto il resto.
E tu? Tu che cos’hai?
Lo volevo chiedere a tutti loro, uno per uno, io che non avevo la forza per stare in piedi di fronte al sole, io che non potevo chiedere, io che quando ho visto le case, ho pensato di essere a casa, io che ho fermato le lacrime di fronte all’assemblea. Perché chiamarle popolazioni rurali è un titolo, come un libro che non si legge per pigrizia, invece Francisco e il profe e Claudia e Saturnino e tutti gli altri, loro non sono parole vuote, loro sono la storia del pozzo scavato troppo poco e quindi finisce l’acqua potabile, loro sono i ponti in costruzione e le strade che invece non le costruiranno mai. Loro non sono parole vuote, le mie parole, invece, sono come il mio zaino, sembra esserci tutto, ma manca tutto il resto.
Isabel
Isabel è una donna forte, dalla pelle scura di sole preso piano, piano.
Isabel parla della Bolivia con il suo accento brasiliano, dolce, come un tererè appena preparato. Ci racconta mentre guida la sua jeep scassata, salta i dossi e supera gli ostacoli e parla e il cuore si fa carta accartocciata passando per il barrio Tamarindo, il frutto miracoloso che toglie la sete, il barrio polveroso che accoglie la fame.
Chilometri di terra rossa e terre di nessuno, di cartelli con i lavori in corso “Bolivia cambia, Evo cumple”, così recitano i tabelloni delle scuole mai terminate, dei quartieri fantasma lontani da tutto, lontani dalla realtà. Perché la realtà te la puoi anche inventare a volte, mi fa capire Isabel, che vive qui da 5 anni e abbraccia le sue donne e le accarezza con le sue parole.
Isabel, che non sempre la vita è facile e a volte ti viene voglia di preparare il tuo zainetto e andare via, lontano, lontano da qui, ma poi la Bolivia ti entra dentro, come una zanzara che fa venire la febbre, ti entrano dentro tutti quegli sguardi sconfitti, ti entrano dentro le battaglie dei lavoratori, le ingiustizie dei ricchi, la povertà dei poveri, poverissimi, che “tutti dovrebbero avere da mangiare” urla la nostra abuelita (la nonna). “Come può un bambino andare a dormire senza aver mangiato?” e continua saltellando sulla sua sedia “Io ho avuto 14 figli e li ho cresciuti tutti, uno per uno, e la sera tutti lì attorno alla tavola, tutti a mangiare, a mangiare qualcosa, quello che c’era, io”. Siamo nella sua casa, Isabel ci ha portate qui, la nostra abuelita ci racconta tutto, di come la vita sia difficile, ma che poi ce la fai, se vuoi, se sai come prenderti le tue responsabilità.
Isabel segue quattro gruppi di donne in tutta la periferia di Riberalta, insegna loro a fare qualcosa di creativo, infradito, sapone, vestiti, borse, tutte quelle cose che si possono vendere, tutte cose che possano restituire il sorriso e la dignità. Potersi dire insieme, la sera, cucendo, bevendo un succo di copo azul, brindando alla vita.
Chiudiamo gli occhi, dieci donne boliviane, italiane, brasiliane: donne. Chiudiamo gli occhi e Isabel ci chiede di fare un respiro, di pensare a questa opportunità di stare insieme, al dono di questo istante. Io sento che è troppo per me, che gli occhi si gonfiano dietro le palpebre, che un giorno intero con Isabel ha cambiato per sempre la mia vita, che a volte un giorno cambia la vita.
La città sussurra questa notte, io mi lascio andare sul sedile della jeep di Isabel, lei sbadiglia e mi saluta, mi dice “ci vediamo domani”, io le accarezzo il viso e le rispondo “sì, ci vediamo domani”.