Rencontres de la photographie Arles 2014

L’edizione 2014 del festival della fotografia di Arles tra criticità di gestione e inaspettate visioni

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/01/sandra_haifa.jpg[/author_image] [author_info]di Alessandra Abbona, @AlessAbbona. Classe 1968, press officer, giornalista free lance, è laureata in scienze politiche e poi in antropologia sociale, con particolare interesse per migrazioni, Mediterraneo e Medio Oriente. Ha sviluppato conoscenze sugli intrecci religiosi, sulle culture e subculture nei paesi del Mediterraneo. La musica è la sua passione. Da anni cura la rubrica musicale per Popoli, mensile dei Gesuiti. E’ inoltre una mamma ansiosa ed è allergica a chi non ha mai dubbi. Il suo blog è http://notonlylanga.blogspot.it/ [/author_info] [/author]

29 agosto 2014 – Cittadina sonnolenta del Midi, ricca di vestigia romane, ma tagliata fuori dalle dinamiche culturali nazionali, Arles è diventata, grazie agli ormai ultraquarantennali Rencontres de la photographie, il punto nodale della fotografia mondiale. Chi l’ha visitata conosce il suo centro storico luminoso, ma piuttosto slabbrato: un luogo gitano, terrone e nordafricano che si allunga pigro su una bellissima ansa del Rodano, con nonchalance e trascuratezza, tra terme, teatri e arene romane che raccontano come si vivesse bene nella provincia della Gallia meridionale, forse persino meglio che non nella popolosa capitale dell’Impero. Arles è bella così, e se ne sta quatta quatta “dans son jus”, come dicono da quelle parti, senza agitarsi troppo.

Sui Rencontres si potrebbe scrivere un saggio, perché da decenni portano nella città delle Bouches du Rhône quanto c’è di più interessante a livello internazionale nel campo dell’arte e della ricerca fotografica.

Quest’anno, però, la manifestazione è nata all’insegna della polemica e delle fratture. Lo storico direttore artistico e curatore François Hebel ha dato le dimissioni per contrasti sia con il Comune di Arles che con la Fondation Luma della mecenate svizzera Maja Hoffmann, ereditiera del gruppo farmaceutico Roche. Per farla breve: gran parte delle esposizioni si erano sempre tenute nelle dismesse officine ferroviarie, il Parcs des Ateliers, luogo suggestivo con grandi spazi (vari padiglioni legati alla produzione dei treni), ma non restaurato e messo a norma, quindi un vero e proprio forno d’estate, con conseguenti disagi nell’allestimento e per i visitatori.

 

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Questo luogo suggestivo è stato venduto dal Comune alla Fondation Luma (da  tempo  sponsor fondamentale dei Rencontres e scout di nuovi talenti nel mondo della fotografia) che rinnoverà tutta l’area, costruendovi la propria sede con annessa torre futurista su progetto dell’architetto canadese Frank Gehry. Hebel avrebbe chiesto che almeno una parte degli Ateliers non fosse messa in vendita, ma che si potessero condividere gli spazi con la fondazione della miliardaria Hoffmann, in modo da non snaturare l’indipendenza della manifestazione e la sua storica presenza in quell’area di archeologia industriale così particolare. Così non è stato, il Comune – sempre più afflitto da carenza di fondi – ha colto al volo l’offerta allettante della Fondation Luma ed Hebel, con grande amarezza, ha preferito chiamarsi fuori.

Un vero peccato, visto che è stato proprio grazie a lui che i Rencontres, a partire dal 2002, sono diventati un evento che ha portato notorietà, occupazione e un significativo indotto turistico ad Arles. L’edizione 2014 è ancora curata da lui, come da accordi previsti e per garantire la riuscita dell’evento, ma dalla primavera di quest’anno è arrivato Sam Stourdzè, nuovo e giovane direttore.

Forse in virtù di questi sommovimenti, l’edizione 2014 è, a detta di chi scrive, più dimessa e meno scoppiettante. Come tradizione, i Rencontres sono costituiti da almeno una ventina di mostre sparse in vari edifici e monumenti storici del centro cittadino: chiese sconsacrate, musei, palazzi, chiostri. A cui si vanno ad aggiungere il Parc des Ateliers e l’Espace Van Gogh (un chiostro restaurato, che è un polo culturale attivo durante l’anno). Quest’anno, per compensare la metà dei padiglioni del Parc des Ateliers non utilizzata, è stata individuata una ex sede del Crédit Agricole in Boulevard de Lices, in centro città: tre piani di piccole stanze – dove almeno c’è l’aria condizionata – ma che mortificano ogni velleità espositiva.

 

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Si aggiunga, poi, la consueta ricca offerta di workshops, conferenze, incontri con grandi nomi della fotografia, proiezioni, stages, attività didattiche per bambini, letture di portfolio, concorsi e formazione a più livelli e così via. Detto questo, che non è secondario, veniamo a quanto i Rencontres hanno proposto quest’anno. Il tema era la “Parade”, quindi non un filone monografico, bensì una presenza multipla di nomi importanti che hanno fatto la storia della manifestazione: Raymond Depardon, Christian Lacroix, Martin Parr, Lucien Clergue, Erik Kessels, Bill Hunt, Joan Fontcuberta, Luce Lebart.

Partiamo con le delusioni. In primo luogo, poco spazio per la fotografia di reportage (a differenza di altri anni), anche poco spazio alla sperimentazione, a favore del materiale documentario. Che va anche bene, ma dopo tre piani in cui mi devo sciroppare – al buio e con l’ausilio di una torcia elettrica – la visione di esemplari di volumi e riviste di propaganda cinese maoista, inizio ad avere un po’ le mani che mi prudono.

Martin Parr e l’equipe di fotografi olandesi WassinkLundgren hanno selezionato una corposa serie di libri di fotografia cinese, lavoro encomiabile di certo, ma capirete anche voi che il troppo stroppia, in particolare quando su un video scorrono le pagine di un libro che cataloga malattie varie a una serie infinita di lingue umane. Il filone tassonomico ha dominato larga parte dell’evento: qualcuno ha scritto che era la parte migliore, a me invece ha lasciato a tratti perplessa.

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“The Walther Collection”, una vastissima collezione che comprende artisti da ogni parte del mondo – con figure di spicco quali Avedon e Araki – mi è passata un po’ troppo svagatamente sotto gli occhi. Ciononostante alcuni nomi hanno catturato la mia attenzione: il nigeriano JD Okhai Ojeikere che ritrasse complesse e ardite acconciature femminili, lo spiritoso camerunese Samuel Fosso, che nella serie “African Spirit”  si trasformava  di volta in volta in Angela Davis, Martin Luther King e Hailè Selassiè ecc., e il tedesco August Sander, con i suoi ritratti della “germanicità”.

Sempre nell’ambito delle collezioni, quella di W.M. Hunt, statunitense che raccoglie da oltre un decennio foto panoramiche di gruppo (classi di college, brigate di pompieri, banchetti, annate di atleti, bande, parate, corali e così via), mi ha divertito e stimolato il coté voyeur che c’è in ognuno di noi.

Di grande valore antropologico e documentario è “Bon baisers de colonie”, a cura di Safia Belmenouar: una serie di cartoline postali che ritraggono donne delle colonie francesi viste come tipi e non come persone. La “mauresque” nelle colonie del Nord Africa, sensuale e lasciva, quella “asiatica”, discreta e fedele concubina del funzionario in trasferta in Estremo Oriente, la “negra”, selvaggia e tribale. Un catalogo vero e proprio di femmine esotiche, tutte senza nome, senza storia, ma vessillo di stereotipi che possono ancora sopravvivere.

 

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Per stare più sul classico, segnalo la serie “La guerre des gosses” di Léon Gimpel: si tratta di una selezione di piccolissimi “autochromes” a colori che ritraggono un gruppo di bimbi del quartiere parigino di Sentier, negli anni del Primo conflitto mondiale, che mimano operazioni belliche. Léon Gimpel, un fotogiornalista, aveva scovato questi monelli che giocavano e aveva chiesto alle loro madri se poteva ritrarli, abbigliati come gli adulti. C’è l’infermiera, l’aviatore, il tamburino: il piccolo Pepète, la mascotte del gruppo vestito sempre di rosso, è una macchia di colore che trasporta queste immagini nell’oggi. Dove certi bambini non giocano più alla guerra, perché la fanno davvero.

Nelle sale antiche del Musée Reattu e nei padiglioni slabbrati degli Atelier, un dovuto omaggio viene tributato al padre dei Rencontres Lucien Clergue, che compie 80 anni. Il suo percorso fotografico è un pezzo di storia che vede ritratti Picasso e il musicista zigano Manitas de Plata, passando per vari mostri sacri della fotografia del Novecento. Non mi fa impazzire Clergue, con i suoi pur bei nudi femminili sulle spiagge della Camargue, ma riconosco il grande valore del suo impegno: ha traghettato la fotografia nell’accademia, facendo nascere una scuola nazionale e portato il nome di Arles in tutto il mondo. Avessimo un Clergue anche noi in Italia, non sarebbe male di certo.

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Al Parc des Ateliers, luogo deputato per l’arte giovane e di sperimentazione, quest’anno non c’è stata una singola esposizione che mi abbia fatto vibrare o che mi abbia divertita particolarmente (ricordo negli anni passati, diversi lavori di reportage toccanti, di denuncia, o opere di folli visionari che rimanevano comunque nella memoria). Allora ho lasciato che decidesse il mio gusto e il senso estetico, e dopo aver sorriso a mezza bocca guardando di sfuggita la sezione “Small universe” dedicata agli artisti olandesi, mi sono goduta lo spagnolo Chama Madoz. Surreale, minimale, pulito, ironico. Un suo lavoro appeso in salotto, non mi dispiacerebbe affatto.

I Rencontres, aperti il 7 luglio, si chiudono il 21 settembre.

Per informazioni: http://www.rencontres-arles.com

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