Nove ragazzi honduregni che vivono in un centro di riabilitazione per problemi di droga e alcool, sette educatori. Sedici destini che arrivano a San Pedro, per uno spettacolo teatrale
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/08/1167912_10151469485300834_1133935201_n.jpg[/author_image] [author_info]di Gabriella Ballarini, da San Pedro Sula (Honduras). Laureata in scienze dell’educazione nel 2003, negli anni ha svolto attività di volontariato internazionale in Kosovo, Argentina, Irlanda del Nord e Scozia. Collabora con Educatori senza Frontiere dal 2006 dove si occupa di formazione in Italia, Africa, Asia e America Latina. Ha pubblicato: Educatori Senza Frontiere. Diari di esperienze erranti, Erickson 2013, Il mondo e l’infradito, San Paolo 2011, Camminammo camminando: le strade che portano altrove, Monti, 2009.[/author_info] [/author]
1 settembre 2014 – Honduras, San Pedro Sula, città complessa, città che grida violenza, sulle strade, sui muri, tra la gente.
Il nostro è un viaggio speciale, portiamo uno spettacolo, si chiama “Circo Caravana”, un gruppo di teatranti, un gruppo speciale. Siamo 16. Nove ragazzi honduregni che vivono in un centro di riabilitazione per problemi di droga e alcool, sette educatori. Sedici destini che arrivano qui, a San Pedro.
Ci accolgono strade maltenute, cortine di ferro e i guardiani con i fucili in mano.
Ci accoglie la fogna a cielo aperto e la sparatoria di fronte casa: due morti e due feriti. Vediamo dal finestrino il nastro giallo, quello dei film americani, che sopra ci scrivono ATTENZIONE!, e tu allora guardi, guardi dentro, vedi la macchina, vedi il buco del proiettile, vedi tutto e pensi. Lentamente torni anche indietro e quasi lo chiudi il finestrino, ti tiri dentro, ti sposti, guardi da un’altra parte, pensi a un’altra cosa.
Ci accolgono in una casa per “ragazze vittime di maltrattamenti”. Entriamo e montiamo il nostro spettacolo, cerchiamo lo spazio più adatto, ma poi lo sguardo gira per la stanza, si ferma sul verde, sul filo spinato dentro la casa, che non ti devi permettere di provare a scappare. Lo sguardo si ferma sulle gonne troppo corte e quelle mani nervose e i racconti spezzati dalla malattia mentale, quegli occhi gonfi di lacrime e il silenzio delle unghie rotte.
I ragazzi che ci guardano, guardano noi, che non sappiamo dove guardare. Le risate durante lo spettacolo e poi piangere quando andiamo via. E noi sempre lì, senza parole.
A San Pedro Sula ci aspettano i bambini dell’asilo, che ne hanno costruito uno dentro al mercato comunale, un atto di civiltà per permettere alle mamme di lavorare e perché i bambini possano stare tranquilli, perché ci vuole un tempo per la cura, ci vuole un tempo per giocare. Il mercato è buio e fitto di bancarelle. I colori stonano con la città, le stoffe e le amache, che se vuoi ti fanno lo sconto. “Hey gringo! Ma che ci fai tu qui?”
Ci accolgono nella casa per i bambini con HIV, che c’è scritto appena entri, che ogni volta che passano possono leggerlo, sopra il muro: ad ogni casa, il suo dolore.
Ad ogni spettacolo un applauso forte, che così non ce lo possiamo dimenticare.
Usciamo e torniamo in strada, San Pedro ci apre le porte del grande hogar (casa) e arriva Franco, che poi si chiama in un altro modo, ma Franco è il suo nome, per me, perché io ho capito così. Franco mi trascina e mi fa vedere l’altalena, che è rosa e ha la forma di pneumatico. Franco è piccolo e ha gli occhi a mandorla, ride e mi chiede chi sono, chi siamo, cosa faremo, che questo è il posto dove vive e poi inizia a giovare con Giorgia, giocano forte, così almeno oggi non ci pensiamo, non pensiamo a niente.
La casa è così grande che la voce rimbomba nella stanza dello spettacolo. I bambini sono anche adolescenti e poi piccoli e piccolissimi, nelle carrozzine. Ad ogni battuta, una risata, ad ogni applauso, un sorriso. Franco va via a metà spettacolo, che lo portan via, non capiamo perché. Poi però lo ritroviamo, Giorgia gli fa una magia e anche noi facciamo la nostra strana magia, andiamo via ancora, andiamo via sempre, lasciamo sospesi in aria gli applausi, le storie, i “Franco” che sorridono e guardano fuori, che vanno via a metà spettacolo ed è normale dirsi addio.
Prima di andare a dormire l’ultimo show a San Pedro, per i cinque bambini della casa che ci ospita. È buio, lo spazio è stretto, ma lo facciamo lo stesso, i bambini parlano parole di violenza, si trascinano nella stanza, ma poi ridono, i muri si impregnano delle loro strane vibrazioni. Roberto punta una luce sui ragazzi, punta tutti, ad ognuno un po’ di luce, ognuno con la propria luce. Salutiamo, poi dormiamo. Sperando nel mattino, sperando di non portare addosso quest’odore triste di San Pedro, questa strana luce, le nuvole basse, la miseri di tutte le strade e di ogni strada e di ogni incrocio e di ogni curva che non svela nulla, solo un’altra curva.
Portami via
Arriviamo all’ennesima casa, si chiama “pro-niños” (a favore dei bambini), e ha anche un sottotitolo, dice “per rendere realtà i sogni dei bambini”. Che è bello avere un sogno, vero?
Entriamo. I muri sono dipinti di verde e di giallo e poi c’è anche una scritta colorata e i bambini forse nemmeno ci aspettano. Sono seduti, le sedie ognuna con il suo colore, con la sua forma, ognuna in un punto diverso dello spazio. Ci guardano, li intravediamo. Osvaldo ha la maglietta rossa e gli occhi veloci. Lui ride e a volte non ride, pensa, controlla tutto attorno a sé. Ride durante lo spettacolo, poi danza, poi mi cerca.
I ragazzi si guardano attorno e non si guardano mai negli occhi, si colpiscono, lo fanno e lo rifanno, prepotenti, quasi assenti. Prepariamo le nostre cose, stiamo andando via. Osvaldo mi scruta, vede che sto cercando la spazzatura, questa è casa sua, così me la mostra. Mi prende per mano, mi accompagna. “Qui c’è la spazzatura, a destra e a sinistra”.
Lo ringrazio, che senza Osvaldo, nessuno mi avrebbe presa per mano.
Ma cosa succede quando ci si prende per mano?
Perdo di vista Osvaldo e poi vado verso il bus, ma lui mi chiama e ci salutiamo, ci abbracciamo, lui mi studia con sguardo robusto, io lo abbraccio stretto. Ci diamo la mano e salgo sul bus. Rimango seduta un istante, un’eternità, apro il finestrino e Osvaldo corre, mi raggiunge e mi prende la mano, se la mette sul viso, come in una preghiera. Non mi lascia andare, mi prega. Secondi come gocce d’acqua in un lago, che fanno i cerchi, si abbracciano, secondi come gocce d’acqua sul finestrino, che disegnano, cerchi e righe che confondono il presente.
Ma cosa succede quando qualcuno ci prende per mano e ci prega?
Piangiamo un po’, io e Osvaldo e i suoi occhi che mi dicono: Portami via.