Il diritto alla favela

Un punto nella baraccopoli di Rio de Janeiro da dove si vede tutta Copacabana. I problemi con l’acqua e una povertà che si nasconde dietro il consumismo

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/1015058_4778608114201_571572631_o.jpg[/author_image] [author_info]di Elena Esposto. @loveSleepless. Nata in una ridente cittadina tra i monti trentini chiamata Rovereto, scappa di casa per la prima volta di casa a sedici anni, destinazione Ungheria. Ha frequentato l’Università Cattolica a Milano e si è laureata in Politiche per la Cooperazione Internazionale allo Sviluppo. Ha vissuto per nove mesi a Rio de Janeiro durante l’università per studiare le favelas, le loro dinamiche socio-economiche, il traffico di droga e le politiche di controllo alla criminalità ed è rimasta decisamente segnata dalla saudade. Folle viaggiatrice, poliglotta, bevitrice di birra, mediamente cattolica e amante del bel tempo. Attualmente fa la spola tra Rovereto e Milano[/author_info] [/author]

5 settembre 2014 – Esiste un’espressione che coloro che si occupano di favelas a Rio de Janeiro amano particolarmente. È direito à cidade. Il diritto alla città.
Sta a significare il diritto (che coloro che abitano nella favela dovrebbero possedere) di godere appieno della propria città senza doversi vedere marginalizzati ed esclusi, in sintesi di farne parte.
Senza volermi mettere a discutere questo concetto, che peraltro condivido, vorrei proporne in modo un po’ ironico, e un po’ provocatorio, un altro.
Oggi pomeriggio mentre mi spaccavo la schiena a pulire la laje (come viene chiamata la terrazza delle case di favela) ho pensato che in questo periodo ho avuto il mio bel daffare a guadagnarmi il mio direito à favela.

Vivere in una favela, per scelta o per necessità, è tutt’altro che facile. Non è l’orrore che ci fanno vedere i film, ma non è neanche tutto quel paradiso puro e bucolico che una parte degli intellettuali ha voluto farci credere. Anche perché dubito fortemente che chiunque di loro ci abbia vissuto davvero.

favela

Più passano i giorni più mi convinco che questo è un posto come un altro, un po’ più scomodo certo.
Il motivo per cui ho scelto di vivere qui, a parte il fatto che tutta questa gente per strada, che si saluta, si conosce, i bambini dei vicini che giocano per strada e mi corrono incontro la sera quando torno dal lavoro per salutarmi, la musica che esce dalle case tutte appiccicate il sabato e la domenica pomeriggio, il vociare di bar in fondo alla scalinata fino a tarda notte e le campane della cappellina qui vicino mi mettono allegria e mi fanno sentire meno sola, è economico. Il mio appartamento qui costa la metà di una stanza in qualunque altro quartiere.

Insomma, non vivo qui né per un istinto missionario che mi porta a voler condividere le condizioni di vita dei miei fratelli meno fortunati, né per aver sposato la tesi roussoniana e marxista che vede la favela come l’ultimo baluardo della vita pura, primitiva e libera dall’ossessione capitalista. Se volete proprio una giustificazione posso darvi quella scientifica e morale secondo la quale mi piace scrivere di cose che conosco da vicino e ritengo importante il fattore esperienza personale.

E per tornare a Rousseau e Marx, o meglio a coloro che li strumentalizzano per partorire idee a dir poco bizzarre, chiunque con un po’ di sale in zucca si accorgerebbe che i favelados non sono né selvaggi (un’idea parecchio offensiva oltre che fuori da ogni logica) né immuni dalle logiche capitalistiche e di consumo, anzi. Se così non fosse non riuscirei proprio a spiegarmi il gigantesco numero di cellulari ultima generazione, vestiti e scarpe alla moda e antenne sky che vedo ogni giorno.
Attenzione, non sto dicendo che la favela non sia uno spazio povero. Al contrario, ci sono alcune favelas e alcune zone che non definirei povere, ma proprio misere. Dobbiamo però anche mettere un attimo in discussione il concetto di povertà.
Al varcare la fatidica soglia della favela non trovate la miseria nera di alcuni slum africani o indiani. Dove vivo io abbiamo l’acqua in casa (anche se con qualche remora, come vedremo più tardi), l’elettricità, le strade sono per la maggior parte asfaltate, sotto casa ho un piccolo supermercato (tipo quelli dei paesini di montagna da noi, dove segnano i conti su di un quaderno consunto), innumerevoli bar, ristoranti, un parrucchiere e perfino una lavanderia a gettoni. E, dettaglio non insignificante, dalla mia laje si vede tutta Copacabana.

Quello che voglio dire è che in un contesto come quello di Rio, dove le favelas sono saldamente incastonate tra gli altri pezzi di città, quello che andrebbe considerato, invece della povertà assoluta, è la povertà relativa. Il che spiega i cellulari, le scarpe alla moda (a volte comprate a costo di altri sacrifici) e il perché tutta la tesi marxista sulla favela va a farsi benedire.

In qualche modo il consumo di beni di lusso è uno dei pochi modi che il favelado ha per guadagnare rispetto e considerazione in questa nostra società capitalista dove lo status e il valore della persona si costruisce sulla base da quello che consuma. Niente affatto immune a queste logiche la favela vi è invischiata e ne è sopraffatta!
Ma recuperiamo il filo del discorso.
Il motivo primario per cui mi trovo qui è che costa poco l’affitto (e non chiedetemi se avessi avuto soldi se avrei affittato un attico a Ipanema perché non lo so, e poi non centra) che è un po’ il motivo per cui tutti noi che viviamo qui lo facciamo.
E se i miei vicini in tutti questi secoli hanno dovuto guadagnarsi il direito à cidade io oggi lotto per guadagnarmi quello alla favela.

Non è facile per chi ha vissuto tutta la vita in Europa o in ambienti che le assomigliavano molto.
Il mio battesimo nella favela è quasi letterale. Abbiamo un problema con l’acqua.
La tubatura responsabile del riempimento della cisterna che c’è sul mio tetto è esplosa (e vorrei vedere, è di plastica…) e quindi ora al suo posto c’è un tubo di gomma per il quale prego tutte le mattine Oxum, la dea dell’acqua dolce secondo il Candomblé, perché non si rompa.

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Tra salire sul tetto della baracca per cambiare il tubo e farmi tutta la salita per portare su l’acqua (immagino che sia inutile dire che casa mia è raggiungibile solo a piedi attraverso una ripida scalinata) da Copacabana preferisco morire.
L’ulteriore problema è che l’acqua passa ininterrottamente e non si blocca al riempimento della cisterna. Così bisogna aprire il rubinetto ogni giorno e aspettare che si riempia la cisterna. Se non la tieni d’occhio l’acqua trasborda e spiove dal tetto sotto forma di una copiosa e rumorosa cascata. Pittoresco.

Il secondo gradino, o il secondo centinaio di gradini (chiedetelo al mio ragazzo che si è fatto la sfacchinata), è stato trasportare la bombola del gas fino in casa. Perché nella favela il gas non è incanalato ma bisogna comprare le bombole. Lo sapevo in linea teorica, ma in linea pratica le uniche bombole di gas che avevo visto finora erano quelle delle case in montagna e in campeggio. E a quelle ci pensava papà.

E oggi pomeriggio finalmente mi sono guadagnata anche il “direito à laje” raccogliendo le foglie secche che la foresta che mi arriva fino in casa ha seminato sul mio terrazzo e sfregando le piastrelle nere di polvere lì da secoli.
La parte divertente di questa sfacchinata è stata che dal terrazzo si vede la scala che si inoltra nella favela e tutti i miei vicini che abitano più sopra si sono fermati a chiacchierare con me (e a tirare il fiato) chiedendomi se stavo facendo le grandi pulizie e dandomi consigli su come tenere la scopa per non farmi venire male alla schiena.
Un vecchietto particolarmente simpatico mi ha chiesto se mi sono appena trasferita e mi ha dato il benvenuto.
L’ho preso come un segnale divino. Un passetto che mi avvicina di più al mio “direito à favela”.

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