Sderot underground

È stata ribattezzata “la capitale mondiale dei rifugi antimissile”. Ce ne sono a centinaia, nella città israeliana al confine con la Striscia di Gaza


di Marta Santamato Cosentino, da Sderot (Israele)

 

5 settembre 2014 – 15 secondi. 100 metri. Questa distanza di spazio e tempo scandisce i ritmi quotidiani degli israeliani che vivono nelle cittadine nel raggio di 10 chilometri da Gaza. Sderot è la più vicina. Dista meno di un chilometro dalla parte nord della Striscia, quel che resta dei palazzi di Beit Hanoun è a portata d’occhio.

In ebraico significa “boulevard”, ma l’atmosfera evocativa del suo nome viene immediamente tradita dalla realtà delle strade all’ingresso della città. E’ stata ribattezzata “la capitale mondiale dei rifugi antimissile”. Ce ne sono a centinaia. Uno ogni 100 metri appunto, la distanza che un passo sostenuto permette di percorre in 15 secondi, il tempo che un razzo lanciato da Gaza ci impiegherebbe a cadere, qualora il sistema “Iron Dome” non facesse il suo lavoro.

“La cupola di ferro”, costata un milione di dollari, ha fatto il suo esordio nel 2011 per proteggere le zone di confine. Con Gaza, prima di tutto, ma anche con la Siria, il Libano e la penisola del Sinai.
Sulla base del calcolo della traiettoria, il radar del sistema riesce ad individuare il punto d’impatto. Nel caso rappresenti una reale minaccia, viene sparato un missile detonatore che intercetta il razzo distruggendolo prima che raggiunga terra.

 

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I costi del sistema continuano a far discutere: non convincono i 100 mila dollari spesi per ogni singolo missile sparato per intercettare un Qassam che ad Hamas non costa più di 50.

La scelta di considerare un’area quale “open space” o, al contrario, quale obiettivo sensibile, non corrisponde solo al grado di densità abitativa ma ad una precisa logica politica. Lo sanno bene le popolazioni beduine del deserto del Negev i cui villaggi sono considerati illegali e quindi non meritevoli di godere della difesa di un sistema che sembra non perdere un colpo, anche nel caso in cui si tratti di intercettare un Qassam che, una volta lanciato, ha la stessa traiettoria imprevedibile che avrebbe un palloncino scappato di mano prima di fare in tempo a fare il nodo che lo chiude.
Da quelle parti gli abitanti si arrangiano scaricando un’applicazione che ti avvisa, esattamente come farebbe una sirena, dell’arrivo di un razzo. Tempo stimato e luogo di impatto appaiono, con buon margine di precisione, sullo schermo del cellulare.

L’efficacia dell’Iron Dome è visibile a occhio nudo: nel boato di un’esplosione, quella che ha tutto l’aspetto della scia di un aereo, termina con una piccola nuvola che si confonde con i cirri del cielo di Israele. Al di là dello scettiscismo di alcuni analisti militari, la gente comune, quella che ha interiorizzato il suono delle sirene, nutre una sorta di fede incontrastata in quel sistema che arriva laddove arrancano gli accordi di pace e il suo nome, nei mercati di Tel Aviv, campeggia sulle magliette vicino alla scritta “I love”.

Dagli altoparlanti sparsi per tutta la città, una voce di donna annuncia, con tono fermo e pacato l’arrivo di un razzo. S I R E N- ogni lettera viene scandita in una cantilena monocorde da cui non trapela l’angoscia e l’urgenza del messaggio. 15 secondi sono troppo pochi per concedersi di avere paura. Non ci sono sirene da quelle parti. Nel corso degli anni ci si è accorti che l’acuto cadenzato dell’allarme provocava una paralisi in un momento in cui, invece, i nervi saldi e la lucidità devono farla da padrone. Secondo i dati diffusi dal ministero della sanità israeliano, il 74% della popolazioni soffre di disturbi post traumatici che il governo cerca di contenere garantendo un’assistenza psicologica gratuita, specie per donne e bambini.
Potrebbe essere che, mentre si è in macchina, la canzone che si sta canticchiando, i risultati delle partite di calcio o le notizie diffuse dalla radio vengano interrotte dalle istruzioni su come comportarsi in caso di pericolo. Se si è alla guida e non si ha un rifugio a portata di mano, bisogna scendere lentamente e buttarsi a terra, con le mani a coprire la testa, sia che ci sia il sole o faccia freddo e piova. Per questo molti automobilisti non indossano la cintura perchè, in certi casi, è un secondo a fare la differenza.

Negli anni opere di street art hanno ricoperto le pareti degli edifici blindati che costellano i “boulevard” di Sderot. Ingentiliscono la vista di un qualcosa che ha il sapore della guerra e, in qualsiasi altra parte del mondo, stonerebbe con la noiosa ruotine di una città di provincia. Per le strade non ci sono bambini. Giocare all’aperto è troppo pericoloso.

L’assenza della dimensione pubblica dell’infanzia l’aveva notata, nel 2008, anche Stanley M. Chesley, il Presidente del Jewish National Fund, un’organizzazione sionista mondiale nata agli inizi del ‘900 per acquisire e promuovere lo sviluppo della terra in Israele. Ha deciso così di finanziare la costruzione di un bunker ricreativo nel quale i gonfiabili, i flipper e i disegni appesi alle pareti dovrebbero restituire un’idea di normalità.
Un’anno dopo, nella parte industriale della città è sorto, su un progetto di Uri Avitay, un edificio di oltre 2200 mq di superficie. All’interno ci sono 5 rifugi, in termini di fuga, ognuno dista dall’altro i soliti 15 secondi. Tutti i giochi sono dislocati in maniera tale da poter venir agevolmente abbandonati per scappare nella “panic room” più vicina. I bambini possono anche esercitarsi nell’arrampicata procedendo, però, solo in orizzontale perchè se andassero troppo in alto non farebbero in tempo a scendere. Ogni rifugio ha una precisa ambientazione: un campo da calcio, una discoteca, la stanza delle feste di compleanno come se le reti, le palle strobostopiche e i festoni potessero davvero far dimenticare di essere in una stanza di cemento armato senza finestre e con le pareti spesse come un frigorifero.

Se qualcuno riuscisse davvero a dimenticarsene, lo scheletro di un Qassam esploso 6 anni fa poco lontanto è esposto, a guisa di trofeo, all’ingresso di una di queste stanze. I bambini ci corrono attorno coi tricicli.

Un ingresso giornaliero costa il corrispetivo di 3 euro che diventano poco meno di 2 in tempo di guerra. Mentre spinge l’altalena una madre racconta che quest’anno non è riuscita a mandare i figli, di 3 e 5 anni, dai nonni che vivono nel centro di Israele.

Là le sirene suonano 2 minuti prima. Un’eternità rispetto a 15 secondi. Si sente sicura- dice- solo quando li porta a giocare nel rifugio. A casa, nei giorni di conflitto, quando le sirene suonano anche più di 10 volte al giorno, le famiglie trascorrono la maggior parte del tempo nella stanza blindata che una legge ha reso obbligatoria in ogni abitazione. Di solito è la stanza da letto dove i genitori dormono insieme ai figli e dove non c’è spazio per l’intimità.

“Se succede qualcosa almeno siamo tutti insieme. Se succede nel sonno almeno non ce ne accorgiamo” racconta Ester che è arrivata dall’Etiopia vent’anni fa, nell’ondata di migrazione africana che, insieme a quella sovietica, ha popolato Sderot.

Suo figlio, Afik, non aveva ancora compiuto 5 anni quando è stato colpito da un razzo. E’ stata la prima vittima in città. Era il 2004 e allora nessuno pensava che non si sarebbe più potuta ascoltare la musica alta per non rischiare di non sentire l’allarme. Ester vive nella stessa casa di allora con gli altri 2 figli. Le chiedo se ha mai pensato di cambiare città, di andare lontano. Mi indica un punto in mezzo al campo davanti alla sua villetta monofamiliare, bianca e anonima come tutte le altre case frutto di un’estetica che non lascia spazio ai personalismi. Suo figlio è sepolto in mezzo a quel campo e lei chiede dove altro potrebbe andare.

Da casa sua, percorrendo la strada fino in fondo, dove il deserto si allarga, si arriva alla collina, quella che sovrasta la strada che porta al valico di Erez e da cui si vede la Striscia.

Punto di osservazione privilegiato, è diventata famosa per essere stata, già durante Piombo Fuso, il teatro in cui è andato in scena l’orrore che provocano il fanatismo e l’oblio del più primordiale senso di umanità.

Due divani guardano nella direzione del mare. A terra lattine di birra e mozziconi di sigaretta, tutt’intorno bandiere con la stella di David e lenzuola che inneggiano allo sterminio e alla soluzione finale. Tutto rigorosamente scritto in ebraico.

La gente di Sderot, in questi 50 giorni di offensiva, la sera, si dava appuntamento su quell’altura da dove era possibile ammirare meglio le esplosioni. E potersene rallegrare.

Sull’esasperazione che si respira da quelle parti si gioca la credibilità politica del Primo Ministro Netanyahu che, a parte gli annunci vittoriosi, deve fare i conti con la rabbia delle famiglie che non vogliono diventare martiri da sacrificare sull’altare della giustificazione dell’offensiva.

Ragionando in termini di proporzione, l’avere un tetto (pure blindato) sotto cui ripararsi in caso di attacco appare un lusso se si pensa che, a meno di un chilometro di distanza, l’altra faccia della guerra non consente nemmeno di sperare di salvarsi. “Continuiamo a sorridere” recita la didascalia che accompagna lo scatto del momento In Israele, il Bomb Shelter Selfie, l’autoscatto nel rifugio.

C’è anche chi si immortala con la maschera all’argilla sulla faccia guadagnando terreno nei 15 minuti che, secondo Andy Warhol, rappresentano il diritto di ciascuno alla celebrità.

 

 

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