Presentato al Milano Film Festival, sezione Colpe di Stato, il road movie vede protagonisti due giovani israeliani emigrati che tornano in patria in cerca delle loro origini
di Antonio Marafioti
@AMarafioti
7 settembre 2014 – In cerca della propria identità sulle rive del Giordano. È l’idea di Deux fois le même fleuve: il primo lungometraggio di Amir Borenstein e Effi Weiss, due cittadini israeliani emigrati in Belgio che decidono di passare le vacanze nella propria terra di origine per capire che cosa sia e in che modo siano legati a essa.
Un road movie, come lo definisce durante le riprese la stessa Weiss, che inizia da un luogo non meglio precisato dell’Alta Galilea, vicino al confine con il Libano, e prosegue lungo il grande fiume fino al lago di Tiberiade.
È la rotta battuta nel ‘900 dall’esploratore e scrittore scozzese John MacGregor, uno dei pionieri della canoa. L’acqua, in effetti, rappresenta uno degli elementi indispensabili della narrazione: i due cineasti incontrano la maggior parte dei loro connazionali a bordo di zattere, canoe e imbarcazioni gonfiabili. Sono in vacanza e si divertono a “casa propria”, diranno in molti. Non c’è riferimento diretto alla guerra o alla politica nella sceneggiatura. Ci si arriverà comunque attraverso i dialoghi che, però, prendono le mosse da domande di tutt’altra natura. Come quel “perché l’hai messa qui?” rivolto a un giovane escursionista che pianta una bandiera con la stella a sei punte lungo la riva del fiume.
Ne nascono scambi di battute, che diventano dissertazioni, sull’importanza del sionismo e della permanenza di un popolo in una terra che, ripetono, fa sentire sicuri anche durante il conflitto. E poi ancora le discussioni brevi, ma intense, con un gruppo di giovani che ricorda ai due protagonisti quanto non ci si possa considerare israeliani se si abbandona Israele. “Ma io ho il passaporto di questo Paese”, risponde Borenstein all’interlocutore. “Se non vivi qui questa cosa non ha rilevanza”.
L’appartenenza ai luoghi e alla storia dei luoghi è il sottofondo di ogni incontro, come quello avuto con una giovane che ha deciso di trasferirsi dall’Australia per restare definitivamente in “una terra che mi richiama sempre a se”.
I dialoghi fra la gente si alternano a quelli dei due protagonisti che, a fine giornata, ragionano in privato sugli incontri fatti, i luoghi visitati e la possibilità di ritornare una volta per tutte a casa. Il differente approccio fra la possibilista Weiss, “credo che un giorno potrei ritornare”, e il più cinico Borenstein, “non esiste un luogo che si possa considerare casa una volta per tutte”, viene esaurito nel corso di un’ultima, solitaria, escursione sulle acque del lago.
Una sequenza, due mezzi primi piani in cui l’uno intervista l’altra e viceversa, per cercare di sciogliere i nodi sociali, politici e ideologici della questione, e affrontare in un raffinato contraddittorio ogni sfumatura intellettuale legata alla propria identità. “Quando sarai pronto a tornare?”, chiede Weiss. “Quando sentirò di voler far parte di questa storia”. La battuta che segue a quest’ultima affermazione racchiude una delle tante risposte alle tante domande del film. Il consiglio è di andare a scoprirla in sala.
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