A Colloquio con Mario Calabresi direttore de La Stampa di Torino al Premio Ilaria Alpi
di Angelo Miotto
@angelomiotto
7 settembre 2014 – Mario Calabresi è uno dei giurati del Premio Ilaria Alpi. Ci troviamo al Palazzo del Turismo di Riccione. Sta consultando il suo smartphone. Un saluto cordiale, una telefonata urgente, poi si toglie la giacca e cominciamo. Entro pochi minuti parlerà dello stato dell’informazione estera in Italia. La Stampa è senza dubbio un giornale ‘diverso’ nell’approccio dei pesi che dedica al mondo e per una dichiarata volontà di sperimentare soprattutto sul web, dov’è il giornale più avanzato e aggiornato. Gli presento Q Code, lo incuriosisce la nostra piattaforma Qcodestories che diventerà attiva fra alcune settimane per i primi esperimenti di lunghi reportage e narrazioni multimediali in download a pagamento.
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Mario Calabresi, c’è un deficit secondo te nell’informazione mainstream italiana nella rappresentazione del mondo, nel sollecitare l’interesse del pubblico più giovane?
Sì, c’è un deficit, perché è sbagliata la lettura che si fa del pubblico. Si parte dal presupposto che gli Esteri non vendano e non interessino. Il problema è che questo spinge a non raccontare con regolarità e in maniera continuativa, ma solo per picchi. Se tu pubblichi la storia dell’Isis e la racconti soltanto quando ci sono le decapitazioni e lo fai in maniera voyeuristica, non capisci nulla. Dura lo spazio di un fastidio. Il punto è spiegare come si è arrivati lì. Dicono alcuni che sia noioso, ma il New York Times ha fatto una mappa interattiva che ti descrive come dalla Siria siano arrivati fino all’Iraq con delle storie e spiegazioni. Allora l’errore secondo me è raccontare che cosa succede nel mondo solo per picchi emozionali, da una parte, e, dall’altra, lo ‘strano ma vero”. La Francia: si raccontano gli affari di cuore e di letto di Hollande, ma non si racconta la crisi sociale del modello francese che potrebbe portare paradossalmente Le Pen presidente. Va raccontata l’Europa, che si racconta pochissimo. Non c’è una politica comune, ma non c’è nemmeno un giornalismo europeo. Sono convinto che si dica che gli esteri non interessino perché vengono raccontati male e in maniera vetusta. Andrebbero aggiornati nella maniera di raccontare. Sui siti dei giornali italiani, tranne La Stampa, la voce Esteri è scomparsa dal menu. A me fa paura questa cosa.
C’è un tema di agenda logora e ripetitiva? Per esempio per le notizie dagli Usa. I giornali raccontano le decisioni strategiche di Obama, ma l’America profonda non viene raccontata.
Parliamo di Usa, ma dei giornali americani: nella crisi economica molti giornali statunitensi hanno reagito tagliando inviati e uffici di corrispondenza, pensando appunto che era più utile concentrarsi sulla politica di casa propria. Chi lo ha fatto è morto: il Los Angeles Times agonizza, il Boston Globe è agonizzante, Newsweek che è stato il suicidio di una rivista, ha pensato che la modernità fosse togliere le storie del mondo e i reportage fotografici che lo raccontavano, cercando un modello leggero: si è schiantato. L’assunto è sbagliato: se le persone ancora acquistano delle cose e pagano il giornale i,50€ non gli puoi dare lo stesso chiacchiericcio che trovi sui social, ma un qualcosa che abbia valore: un reportage esclusivo dal Kurdistan, un ospedale dove ci sono i medici che combattono Ebola. Devi spiegare ai lettori che stai dando un valore aggiunto.
Nel convegno di due giorni fa Gigi Riva de l’Espresso sosteneva che il disinteresse per gli esteri in Italia può essere fatto coincidere con il 1992 e Tangentopoli, quando ci si concentrò in maniera ombelicale sul crollo di un sistema politico. Sei d’accordo con questa visione?
Il ’92 lo puoi leggere come gli albori di un cambio di mondo, il crollo della Prima Repubblica, ma puoi leggerlo anche così: Mieli diventa direttore de La Stampa e poi del Corriere e Mauro arriva a Repubblica e sono loro che cambiano i giornali portando l’accento sui retroscena del Palazzo, spostando i pesi dell’agenda del giornalismo italiano. Una scelta di modello facilitata dal fatto che l’Italia inizia a interrogarsi sulla nuova fase politica.
Tu hai fatto un giornale che sperimenta, con degli speciali, dei dorsi, dei supplementi e sul web siete uno dei giornali più avanzati in Italia. Siamo arrivati a un nuovo giro di boa nel modello del fare i grandi giornali?
Sono convinto che si possa sposare il giornalismo di qualità con i nuovi linguaggi. A La Stampa stiamo cercando di seguire tre filoni: il webdoc, il datajournalism con infografiche e numeri e la capacità di andare fra la gente con la webcar. Quest’ultima compie un anno e stiamo ripensando il suo utilizzo: abbiamo visto che se andiamo a convengni o situazioni classiche non fa molto successo, mentre dentro le notizie e fra le gente funziona. Cioè quando porti le persone insieme a te dentro la notizia. Quest’anno ho fatto un investimento su un webdoc sul Rwanda, di Giordano Cossu, perché mi sembrava che ne valesse la pena. Le cose tradizionali della carta continuano a costare di più: se mando un inviato dietro Renzi in Calabria mi costa sui 1500 euro per avere cinquanta righe uguali a quelle che tutti scrivono e che trovi sulle agenzie. Se prendiamo un bel servizio da Maidan a 1500 euro ci si scandalizza del prezzo! Questo vuol dire che andava cambiata la mentalità. Ho detto: tutti i giorni dietro a Renzi non ci andiamo più, basta con gli automatismi, e facciamo delle scelte, come investire su un fotografo per raccontare Maidan. Ho speso tanto, ma ho presentato la cosa sul sito, il webdoc sul Rwanda lo sostengo in tutti i modi, perché è un mio investimento. Se io voglio fare Buzzfeed sono morto, il mio DNA è fare informazione con credibilità e lo devo trasportare ed aggiornare sulla rete. Spostando di soldi che spreco in modo tradizionale da un’altra parte.
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