Breve biografia politica di José Manuel Durão Barroso, che il 1° novembre uscirà silenziosamente di scena per cedere la presidenza della Commissione europea a Junker
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/Schermata-2013-06-20-alle-18.34.04.png[/author_image] [author_info]di Marcello Sacco, @MarcelloSacco1, da Lisbona. Nato a Lecce, vive da anni a Lisbona, dove lavora come professore, traduttore e giornalista freelance. La sua pubblicazione più recente è “Salazar. Ascesa e caduta di un dittatore tecnico” (Besa 2014)[/author_info] [/author]
19 settembre 2014 – Con l’annuncio della nuova Commissione europea di Jean-Claude Juncker (che si insedierà il prossimo 1º novembre) esce silenziosamente di scena il vecchio presidente, José Manuel Durão Barroso (anche se qualcuno, a Lisbona, già lo vuole in corsa per la presidenza della Repubblica). È una biografia politica che val la pena di ripassare, quella di Barroso, perché minaccia di far scuola. È la storia breve di un perdente di successo, dotato della rara capacità di trasformare le sconfitte in punti a suo favore. Come quando perse la corsa alla segreteria del Partito socialdemocratico portoghese, alla vigilia della vittoria elettorale socialista; cosa che gli permise di abbandonare la prima linea al momento giusto. Il tutto in un contesto politico in cui la scarsa rilevanza internazionale del Portogallo ha privato purtroppo di ogni significato concreto l’alternanza democratica interna, riducendola a vuoto nominalismo in cui tutti i partiti sono nominalmente di sinistra, ma si importa pensiero unico a pacchi e si esportano braccia e cervelli. Barroso, in fondo, per molti suoi connazionali non è che un cervello in fuga fra i tanti. Un emigrante di lusso che ha capito quanto poco valga avere un progetto per la propria piccola nazione quando le vere possibilità di carriera sono altrove.
La sua mediocrità, va detto, nulla ha a che vedere con la comica cafonaggine di certi uomini e donne della politica nostrana, pescati nei circoli provinciali di partito (dalla Padania alla Sicilia) o nelle liste d’attesa dei casting televisivi. Un suo video non diventerà mai virale a causa della sintassi creativa o della pronuncia impacciata. Parla perfettamente il francese e l’inglese, forse perfino lo spagnolo, e con i tedeschi abbiamo capito che se la intende fin troppo. A dispetto del soprannome che i portoghesi gli hanno appioppato (“Cernia”), Barroso non ha bazzicato le università albanesi del “Trota”, anzi vanta titoli a Lisbona, Ginevra e negli USA. Dopo un periodo di militanza giovanile in gruppuscoli maoisti e marxisti-leninisti (vere fucine di politici e pensatori di destra appena varcata la soglia dei 30 anni), già dagli anni ’80 è un giovanissimo sottosegretario che in breve, nel ’92, arriverà al Ministero degli Esteri nel governo di Cavaco Silva (attuale capo dello Stato). In questa fase, la sua realizzazione più notevole sono gli accordi di Bicesse tra MPLA e UNITA, i due partiti che stanno dilaniando l’Angola in una lunghissima guerra civile. La pace resterà solo un breve armistizio e la guerra riprenderà per altri dieci anni.
Intanto lui finisce fra i banchi dell’opposizione. Fa qualche anno di purgatorio e diventa presidente del Consiglio nel 2002, dopo che i nuovi scenari mondiali del post-11 settembre hanno travolto il governo socialista in carica. Con discorsi che sembrano anticipare le recenti politiche di austerità, il suo governo si impone come meta prioritaria l’aggiustamento dei conti dello Stato a spese del lavoro salariato e dei servizi sociali. Guarda caso l’economia portoghese dà subito segnali di stagnazione (2002) e poi di vera e propria recessione (2003). Barroso se le mette evidentemente nel curriculum.
Ma il salto di qualità lo fa sul piano esterno, con la crisi in Iraq. Nel settembre 2002, durante un incontro di leader del Partito popolare europeo in casa Berlusconi, a Villa Certosa, capisce che spagnoli, italiani e inglesi sarebbero pronti a sostenere un intervento armato degli USA anche senza la copertura ONU. Ne parla con l’allora presidente della Repubblica (il socialista Jorge Sampaio), il quale è perplesso e gli fa notare che, pur rispettando le rispettive competenze stabilite dalla Costituzione, non avrebbe tralasciato di manifestare la propria opinione. Il premier abbozza e vola a Washington dove, durante un briefing con la stampa al fianco di un cauto e abbottonato George W. Bush, butta giù una citazione da Churchill: “Il problema con gli alleati è che, a volte, hanno delle opinioni”. In quel preciso istante, narrano leggende e fonti diplomatiche, George si innamora di lui.
La love story transatlantica (che poi è anche una gara col rivale iberico Aznar a chi piace di più ai falchi americani) fa di Barroso una delle non poche spine nel fianco della coesione europea, specie in tema di politica estera comune. E dinanzi a Parigi e Berlino, che si mostrano fortemente intenzionate a non assecondare gli USA sull’abnormità giuridica della guerra preventiva, è tra coloro i quali affermano che l’Europa non può assoggettarsi a un direttorio franco-tedesco. Chi l’avrebbe mai detto, no? Si arriva così al summit-lampo delle Azzorre.
Il 16 marzo 2003, Bush, Blair, Aznar e Barroso si riuniscono nella base NATO di Lajes, sull’isola di Terceira, e decidono di dichiarare guerra a Saddam Hussein. Le operazioni, già pronte, inizieranno pochi giorni dopo. Per Blair, che non vuole sembrare il cagnolino di Bush, ma teme un summit a Londra fra le proteste dei connazionali (a cominciare dai compagni laburisti), le Azzorre sono il punto geografico perfetto, equidistante fra America ed Europa e lontano dai clangori di un’opinione pubblica agguerrita. Fra i vari vantaggi, l’arcipelago ha anche quello di consentire a Barroso lo schema che la sua diplomazia ribattezza 3+1, in cui l’uomo in più sarebbe proprio lui: né partner belligerante di primo piano, come gli altri, né semplice maggiordomo. Cosa che gli permette, fra l’altro, di mantenere ancora rapporti passabilmente cordiali con Chirac e Schröder. Gli torneranno utili l’anno successivo, quando bisognerà eleggere il successore di Romano Prodi alla presidenza della Commissione europea.
Essendo il candidato ufficiale del Portogallo il socialista António Vitorino (già commissario uscente), il governo di Lisbona smentisce con fermezza le indiscrezioni che iniziano a trapelare su una possibile candidatura di Barroso. “Vitorino stai sereno” sarebbe stato l’hashtag, se li avessero inventati prima. Anche perché il primo ministro è impegnato in una serissima opera di contenimento della spesa pubblica per salvare un Paese che (l’aveva detto nei suoi primi giorni da presidente del Consiglio) era “in mutande”. Alla fine, però, risulta vera l’indiscrezione. L’altro favorito del momento è Guy Verhofstadt, ma il premier belga, durante la crisi irachena, è andato talmente in là nel suo europeismo da ventilare l’ipotesi di un quartier generale vicino a Bruxelles per operazioni militari indipendenti dalla NATO. Blair pone il veto. Ci vuole un candidato più mansueto, uno che possa piacere a tutti o perlomeno non dispiacere a nessuno. Insomma ci vuole un candidato meno europeista. Aznar si era ritirato dopo il castigo elettorale marchiato a fuoco dai drammatici attentati di Madrid del marzo 2004; restava il maggiordomo gentile e colto delle Azzorre, quello che stava provando a introdurre l’austerità con svariati anni d’anticipo sulla crisi mondiale e in quelle ultime elezioni europee aveva appena preso una memorabile batosta. Come gli americani con l’artiglieria al confine dell’Iraq, anche lui già teneva le valigie pronte, sebbene fingesse di no. Porterà a Bruxelles la “fiacchezza drammatica” di un recente fuori onda fra Prodi e D’Alema. Lascerà al Paese in mutande una crisi di governo e una politica tutta da rifare.
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