Il referendum del 18 settembre, nel cuore della Scozia, tra aspettative e timori
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/09/10711534_10203358238169188_952684809_n.jpg[/author_image] [author_info]di Chiara Bonfiglioli, da Edimburgo. E’ attualmente ricercatrice all’Università di Edimburgo all’interno del progetto collettivo chiamato CITSEE, dedicato al tema della cittadinanza nel Sud Est Europa. Ha conseguito un master e un dottorato in studi di genere all’università di Utrecht e scrive di storia del femminismo e storia di genere in Italia e nello spazio post-Jugoslavo. Ha scritto per Osservatorio Balcani Caucaso e Liberazione.[/author_info] [/author]
20 settembre 2o14 –
18 settembre – pre-referendum
Arrivo a Edimburgo due giorni prima del referendum, di ritorno per una settimana nella città dove ho vissuto e lavorato negli ultimi due anni. Le strade sono apparentemente tranquille, e l’imminenza del referendum si avverte appena. Edimburgo è una città internazionale, centro d’affari e della classe media, quindi quasi sicuramente orientata al no all’indipendenza.
Incontro però una manifestazione pro-Yes nei Meadows, il principale parco del centro, ampiamente partecipato, con una grande percentuale di studenti. La campagna per l’indipendenza, o Yes campaign, oltre che dal Partito Nazionale Scozzese (SNP), è stata portata avanti da una serie di gruppi di attivisti di sinistra, per la pace, per i diritti delle donne, per il welfare.
La campagna si è svolta in modo capillare, tramite meetings e assemble, portando lo schieramento del si testa a testa con lo schieramento opposto. Già questo è un risultato impressionante, considerato che la percentuale di voto la primavera scorsa era del 30% e considerato il fatto che la stampa nazionale e locale ha sostenuto il mantenimento dell’unione.
L’indipendenza, secondo la campagna per il si, garantirà una Scozia più sociale, più ecologista, più ricca grazie alla possibilità di controllare le reserve petrolifere del mare del Nord e di destinarle a settori come l’educazione o la sanità, contro le politiche di austerità decise da Londra.
Gran parte della campagna si basa infatti sull’ostilità verso il governo conservatore di Londra. Storicamente, la Scozia ha quasi sempre votato per il partito laburista, ma si è spesso ritrovata ad essere governata dai Tories. La campagna per l’indipendenza sostiene inoltre che una volta uscita dall’Unione la Scozia potrà entrare a far parte dell’Unione Europea – evitando il referendum sull’EU previsto nel 2017 nel Regno Unito. La campagna sostiene inoltre che la Scozia indipendente potrà continuare ad utilizzare la sterlina, contro i sostenitori del no, che mettevano in dubbio la possibilità di mantenere un’unione monetaria dopo l’indipendenza.
La campagna del no ha puntato molto sul tema dell’incertezza economica, utilizzando quelle che la Yes campaign definisce come “scare stories”, storie che hanno l’obiettivo di spaventare gli elettori su questioni chiave, per esempio mettendo in dubbio l’esistenza del sistema sanitario nazionale (NHS) o la continuità delle pensioni. I sostenitori del si, al contrario, dicono invece che nè il servizio sanitario nazionale nè le pensioni saranno a rischio – anche se di fatto non spiegano come saranno rinegoziate con Londra in caso di indipendenza.
Un altro argomento della Yes campaign è pacifista, e chiede che i sottomarini nucleari del Regno Unito – il cosiddetto Sistema Trident – siano rilocati altrove. La campagna sottolinea inoltre come le guerre decise dal governo di Londra negli ultimi anni abbiano causato vittime tra la popolazione scozzese. Per questo la campagna per il si è stata sostenuta ampiamente anche da gruppi pacifisti e di sinistra come la Radical Independence Campaign, che sperano di poter implementare una politica anti-imperialista più radicale in una Scozia indipendente, a partire dal boicottaggio dello stato di Israele.
La campagna per il no, da parte sua, puntando sullo slogan Meglio Insieme (Better Together), sottolinea come convenga restare nel Regno Unito per ragioni economiche e di sicurezza geopolitica. Better Together sostiene che non vi sono garanzie rispetto all’uscita dal sistema di difesa britannico e dalla sterlina nel caso in cui la Scozia si dichiarasse indipendente. Secondo i sostenitori del No, grazie, la Scozia al momento ha “the best of both worlds”: una serie di poteri già demandati al parlamento scozzese, che potrebbero essere estesi, insieme alla la sicurezza che deriva dal fare parte del Regno Unito. Sostanzialmente tutta la campagna del no è incentrata sul fatto che l’indipendenza non conviene dal punto di vista economico, per via dell’incertezza su pensioni, sanità, mutui, potere d’acquisto, e sicurezza.
Come molti osservatori hanno notato, la campagna del no non è stata in grado di proporre cambiamento, ma si è trincerata sulla difesa dello status quo. Da questo punto di vista, la campagna per l’indipendenza ha avuto un notevole vantaggio dal punto di vista emotivo. D’altra parte, è vero che una serie di questioni fondamentali come quelle della valuta, delle frontiere o dell’entrata nella UE restano aperte, e quindi per molti elettori le attuali certezze sono preferibili all’incertezza futura, soprattutto quando si tratta di incertezza economica in un momento di crisi. Molti temono anche la perdita del passaporto britannico in favore del passaporto scozzese, e il fatto che vengano create frontiere tra la Scozia e il Regno Unito, nonostante la campagna indipendentista sostenga che non ci saranno frontiere territoriali, come avviene al momento tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord.
Per quanto riguarda il sistema universitario, vi sono poi una serie di incognite sulla distribuzione dei fondi alla ricerca, nonostante la campagna per il si sostenga che la Scozia indipendente destinerà piu fondi all’istruzione e manterrà delle tasse di iscrizione significativamente inferiori rispetto al Regno Unito (al momento, la laurea triennale è gratuita per gli studenti scozzesi ed europei, mentre gli studenti del resto del Regno Unito devono pagare l’equivalente che pagherebbero altrove, ovvero 9000 sterline. Questo per evitare che le università scozzesi siano prese d’assalto da studenti del resto del Regno Unito).
L’indipendenza, quindi, presenta molte incognite, come dimostrato dal morale di molti amici internazionali che lavorano a Edimburgo come ricercatori e che sentono di non avere abbastanza garanzie su quel che succederà in caso di indipendenza. Anche i tradizionali elettori laburisti sono combattuti – il partito laburista ha fatto campagna per il no dicendo che la soluzione per cacciare i conservatori era la solidarietà con il resto del Regno Unito e non l’indipendenza. Il partito laburista, tuttavia, è largamente screditato in Scozia (e altrove) per via delle politiche neoliberali portate avanti negli ultimi vent’anni.
Quando ho saputo di poter votare in quanto cittadina UE residente in Scozia, mi sono detta che non avrei preso parte nel referendum, perchè non mi sentivo in diritto di esprimere la mia opinione rispetto ad una questione così complessa, e rispetto ad un paese da cui stavo per partire (L’apertura del diritto di voto a tutti i residenti è un indubbio esercizio di democrazia, ma tale apertura è limitata ai residenti provenienti da paesi UE. I residenti con passaporti extra UE non sono autorizzati a votare). Un’amica, ricercatrice catalana, dice di essere senza dubbio a favore dell’indipendenza della Catalogna, ma è indecisa per quanto riguarda la Scozia. I miei colleghi provenienti dall’ex Jugoslavia sono divisi tra no (Bosnia) e si (Kosovo), ma non hanno diritto di votare.
Dopo una lunga serie di discussioni mi decido a votare si per sostenere il processo costituente che questa campagna ha scatenato nel Regno Unito, contro la politica dell’intimidazione creata ad arte dai media e dai politici inglesi. Mi decido a votare in solidarietà con coloro che non hanno mai avuto voce in capitolo e stanno ora mettendo alla prova l’establishment britannico, dopo aver costruito una campagna dal basso, consapevoli di non avere niente da perdere. Fuori dal seggio, davanti alla cattedrale di Saint Giles, gruppi di catalani manifestano per il diritto al referendum.
19 settembre – post referendum
Mi sveglio: siamo ancora nel Regno Unito. Fin dalle prime ore del mattino è evidente che il no al referendum ha prevalso al 55%, con 84,5% di votanti, per la soddisfazione di David Cameron e delle borse, e per il sollievo di molti qui a Edimburgo. Solo gli abitanti delle città di Glasgow, Dundee e delle contee del North Lancashire and West Dunbarshire si sono espressi per l’indipendenza, a Edimburgo e altrove i sostenitori della Scozia nel Regno Unito sono stati la maggioranza. In questo si vede chiaramente che questo è stato anche un voto di classe.
Il programma dello Scottish National Party e della campagna per l’indipendenza però non è riuscito a convincere fino in fondo gli elettori che la Scozia indipendente potesse farcela da sola, e che potesse garantire standard migliori. Il governo britannico dichiara ora che avvierà un processo di devolution in tutto il Regno Unito, dopo avere promesso ulteriori poteri al parlamento scozzese nel caso in cui il no avesse prevalso. Anche se l’indipendenza non è stata raggiunta, il referendum ha rilanciato il dibattito politico come mai era successo negli ultimi anni, e ha sfidato il tradizionale bipartitismo Conservatori – Laburisti.
Molti in Scozia hanno creduto che un’alternativa allo status quo fosse possibile, e si sono battuti per il cambiamento. La prudenza, però, ha prevalso. C’è un detto inglese (alcuni dicono sia una traduzione di un detto cinese) che recita: “May you live in interesting times”. E non si tratta di un augurio.