Libano: nella notte tra il 16 e il 17 settembre 1982, nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila vengono brutalmente uccise 1500 persone dalle falangi libanesi
di Paola Rizet*, da Beirut, tratto da Osservatorio Iraq
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24 settembre 2014 – Nella notte tra il 16 e il 17 settembre del 1982, a Sabra e Shatila vengono brutalmente uccise 1500 persone dalle falangi libanesi. Bambini, donne, uomini e anziani, verranno seppelliti in fosse comuni. Una di esse oggi è un giardino, unica zona verde di tutto il campo. Dalla voce di Um Muhammad, il racconto della notte più lunga per i palestinesi in Libano.
Le chiamano semplicemente “le madri”. A prescindere da chi abbiano perso durante quei giorni terribili. Che si sia trattato di un figlio, un nipote, un fratello o i genitori, poco importa.
Loro sono le madri di Sabra e Shatila, le testimoni oculari di un crimine impunito.
Il 15 settembre alla conferenza stampa per ricordare il 32° anniversario del massacro, ospitata presso la sede del sindacato dei giornalisti, erano circa una ventina. Sedute vicine, strette fra loro, quasi a voler fare un corpo unico, esponevano le foto dei loro cari.
Immagini ingiallite, che raccontano un’altra epoca, bambini adolescenti, donne e uomini, che resteranno sempre giovani nella memoria di chi è rimasto.
Qualche madre ha fatto un pachtwork di copie diverse e le tiene conservate in una cornice, e questa è la versione moderna.
Volti segnati dal dolore, sguardi eloquenti, malinconici e fieri, difficili da sostenere finché non ti sorridono, all’improvviso. C’è gratitudine nei loro occhi per chi è li con loro in una ricorrenza tanto importante.
Tra loro c’è anche un uomo. Abu Salam tiene stretta una cartellina, ci sono conservati articoli di giornale, documenti del figlio, certificati dell’Unwra, foto e lettere.
Sono testimonianze preziose, raccolte in 32 anni, che raccontano l’impegno di un padre che ha parlato a tv e giornali di tutto il mondo perché “chi se n’è andato non sia dimenticato”.
Quando la conferenza stampa si chiude e Jamila mi dice di essere soddisfatta per l’ampia partecipazione di televisione e stampa, ci organizziamo per incontrare una delle madri. Potrò intervistarla al centro di Al-Sumud.
Torniamo tutte insieme con un autobus che ci porta a Sabra e Shatila. Lungo il tragitto la vita riprende il sopravvento, le sento parlare delle incombenze di ogni giorno, il pranzo da preparare, un nipotino nato da poco, il caldo, una ricetta nuova da provare, il bucato che aspetta di essere steso.
Questa è la storia di Um Muhammad, che durante il massacro di Sabra e Shatila, in una sola notte ha perso 15 parenti tra cui tre figli. Una famiglia decimata nell’arco di poche ore.
Alcuni dei suoi cari non sa ancora dove sono stati seppelliti. Non ha un posto dove poterli piangere. Oggi ha circa settanta anni e per lei parlare di quanto è accaduto, mi sussurra, ha un duplice significato: “il dolore di ricordare e l’importanza di ricordare”.
Il suo racconto inizia con l’incontro di un suo vicino, libanese, che le dice che gli israeliani vogliono che tutti i palestinesi vadano a farsi timbrare il documento d’identità all’ingresso del campo. Ha paura, ma decide di andare comunque.
Scoprirà immediatamente dopo che in realtà, si tratta di un espediente delle Falangi libanesi (alleate di Israele) per far uscire parte della popolazione dalle proprie case per poi dividerla in due file parellele: da una parte gli uomini, dall’altra le donne.
Il campo è illuminato a giorno dai militari israeliani mentre le falangi sono impegnate a rastrellare le case e a gestire il flusso di persone che sono state raccolte nelle due file.
La destinazione da raggiungere, dicono, è lo stadio.
Nella fila degli uomini ci sono i suoi tre figli: Muhammad, 19 anni, Walid, 17 e Ali che ne ha 15. Sarà l’ultima volta che li vede.
Il giorno successivo scoprirà che le falangi hanno preso anche i suoi cugini e gli zii. Alle donne viene ordinato di iniziare a camminare, la fila degli uomini invece resta nel campo.
Dopo qualche ora trascorsa nello stadio permettono alle donne di andarsene. Consigliano loro di recarsi nel quartiere di al-Fakhani, ma non si fidano, la zona suggerita infatti proprio in quelle ore sta subendo pesanti bombardamenti. Um Muhammad stabilisce con altre donne di andare a Cola, un’area vicina al campo. Lì trovano rifugio in un palazzo dove passeranno il resto della notte.
Il mattino dopo, stanche dopo una notte insonne e impaurite per il destino dei parenti, decidono di tornare al campo, sperano che gli uomini siano stati liberati come è stato fatto con loro.
Lungo la strada vedono una donna correre e urlare, pronuncia frasi sconnesse ed è sotto shock, le uniche parole che riescono a capire sono: non avete idea di cosa è successo.
Quando entra nel campo Um Muhammad scopre che suo suocero e due cugini sono ancora vivi, ma lungo la strada principale vede i corpi senza vita di uomini e donne, distesi ai lati della via. In alcuni punti ci sono piccole fosse che sono state ricoperte con approssimazione da cui affiorano altri cadaveri. Corre verso la sua casa nella speranza di trovarci i suoi figli, ma è vuota e silenziosa.
Come tante altre donne del campo inizierà a cercare i suoi cari nei vicoli, nelle case di parenti e amici, ma senza alcun risultato.
Come si può superare tutto questo dolore mi chiede? Non c’è modo … non c’è possibilità.
Prima di salutarmi, mi stringe la mano e ancora commossa mi dice: “Io non ce l’ho fatta a tornare in Palestina, ma mia nipote sì e oggi vive a Ramallah”.
*Paola Rizet è responsabile del programma di sostegno a distanza di Un Ponte per…
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