Bollani, parole e note

di Antonio Marafioti

Stefano Bollani si racconta al pubblico di Macao in un incontro di parole e musica. QCode l’ha intervistato in esclusiva

Bollani sostiene concetti e idee. Racconta aneddoti. Pausa. Un sorso di vino. Bollani improvvisa in parole e note. Passa dall’andantino al vivacissimo nello spazio di una domanda. «Mi sono perso. Di che cosa stavamo parlando?». Legge lo spartito dei suoi pensieri, ritrova il filo e narra senza soluzione di continuità. Era curioso di conoscere il centro culturale di Macao e, dice, «quando mi hanno invitato ho accettato subito». Si presenta puntualissimo per sostenere Nowhere, i progetti di residenza attiva ideati dal centro artistico di viale Molise a Milano, e per incontrare il suo variegato pubblico. La presenza di un artista internazionale in quella che fu la sede della borsa del Macello, rafforza la tesi che Wynton Marsalis sostiene nel suo Come il jazz può cambiarti la vita: è una musica che unisce varie anime della società. Bollani ne è divertito e racconta loro la sua storia partendo dagli esordi in tv con Renzo Arbore a Meno siamo meglio stiamo. «In Rai censurarono “Cuccurucucu Curano”, perché troppo politicizzata, e poi con Renzo aveva già lavorato Andy Luotto che faceva l’arabo e per questo ricevette critiche e minacce. Optammo per Cuccurucucu Kundera e non lo cambiammo più».

Tra un aneddoto e l’altro inventa e duetta con l’amico Antonello Mura che gli chiede se ricorda di quando, nel 1963, Dizzy Gillespie annunciò dal palco del Monterey Jazz Festival l’intenzione di candidarsi, l’anno seguente, alla corsa alla Casa Bianca che, una volta presidente, avrebbe voluto trasformare in The Blues House con Duke Ellington, Segretario di Stato, Miles Davis a capo della Cia, Louis Armstrong come titolare dell’Agricoltura e Ray Charles responsabile della Biblioteca del Congresso. «Se dovessi farlo io avrei una sola certezza, metterei Paolo Fresu alle Identità Regionali».

Il pubblico ride. Bollani ci gioca e pare, semplicemente, non riuscire a farne a meno, come se fosse uno di famiglia. A chi gli chiede consigli sulla produzione musicale, lui, che è anche produttore artistico ed esecutivo, risponde: «Quando un musicista si trova a gestire il lato economico di un album finisce per spendere il triplo dei soldi che spenderebbe un produttore puro. Ho incontrato tanti produttori nella mia carriera. C’era chi, come Manfred Eicher della ECM, fermava la registrazione in studio perché sentiva calare una nota di contrabbasso, chi invece si abbioccava a metà pezzo e una volta sveglio sentenziava “Me sa che questo spacca”». Il suggerimento è quello di tentare la strada dell’autoproduzione e rimanere padroni delle proprie opere, «perché se la casa di produzione fallisce o viene venduta a un’altra che non vuole ristampare il vostro disco, o rivendervelo, quel lavoro andrà perduto».

Viene tirata in ballo la storia del mancato accordo sulla colonna sonora di Caos Calmo, il film di Nanni Moretti. «Dopo aver letto il libro di Sandro Veronesi avevo sostenuto, nel corso di una conferenza stampa, che se mai qualcuno ne avesse fatto un film mi sarebbe piaciuto comporre la colonna sonora. Punto. Poi mi chiamarono veramente, ma non riuscimmo a metterci d’accordo perché per loro non andava bene ciò che avevo creato. Alla fine di mille prove, uno dei responsabili del film mi disse: “Vabbè nun te preoccupà tanto alle tre arriva n’artro”».

L’ultima battuta prima di suonare. «Aspettate perché non conosco questa tastiera e devo parlarci un po’». Parte un dialogo mimico fra lui e lo strumento. Infine la musica e il silenzio assoluto in sala. Lui non scherza più, almeno non durante il primo brano. Splendido. Il bis è un suo cavallo di battaglia, la sigla di Heidi alla bollanesca. È come se invitasse le note a dire ciò che la sua bocca non riesce a pronunciare. È il solito, eclettico, divertente, Bollani. Tra gli applausi si alza, fa un inchino e rimane ancora un po’ a firmare autografi e sorseggiare il suo vino in sala. Qcode lo incontra a mezzanotte e diciotto nella sala cinema di Macao.

 

BOLLANI 4

Ph Macao – Nuovo Centro per le Arti, la Cultura e la Ricerca, Milano

 

L’ultima volta che ti ho visto dal vivo a Milano suonavi in piazza Duomo con la Filarmonica della Scala. Oggi hai parlato e ti sei esibito qui a Macao. Questa è la vera democrazia del jazz?

«Il jazz è nata come musica popolare. Si ballava, la suonavano nei bordelli. Poi, in Europa è diventata la musica di un’élite, quasi una nuova musica classica. Però in realtà è semplicemente musica che ti piaccia o no. Però mi spaventa il parallelo che hai fatto tu tra jazz e democrazia».

 

L’ha fatto Marsalis.

«Che cosa scrive Wynton? Non ho letto il libro».

 

Sostiene che il jazz sia una delle più alte forme di democrazia perché viene dal popolo e non può prescindere da un concetto di collettività.

«Guarda, io spero, invece, che il jazz stia molto al di sopra di qualsiasi forma di democrazia che si sperimenti oggi nel mondo».

 

Perché?

«Perché la democrazia come viene concepita attualmente è come un pugno in faccia mentre stai seduto sulla tazza del bagno».

 

Però tu, che sei un artista jazz, non suoni solamente nei club da 60 euro a concerto. Permetti anche alla gente di assistere a un tuo live a pochi euro, se non del tutto gratis. Non è una forma di democrazia questa?

«Sai quello è un fatto culturale. Il jazz è nato nei club fumosi, di cui tanto si narra. In Italia ci sono stati per pochissimo e non si poteva neanche più fumare. Poi non ci sono stati neanche più i club perché non ce la fanno a campare con i soldi delle birre. Per noi musicisti il gestore del locale è sempre stato un nemico, ma in realtà, poverino, lotta con delle leggi che sono durissime. Se si vuol fare musica dal vivo si ha la SIAE addosso, qualsiasi controllo possibile che impedisce un intrattenimento musicale dal vivo magari con dei giovani talenti. È molto difficile fare musica per questo motivo. Mi sono perso, ho risposto alla tua domanda?».

 

In parte. Volevo sapere perché suoni nelle piazze o in altri luoghi senza far pagare.

«Non voglio lanciare alcun messaggio, se è questo che mi stai chiedendo. Suono perché mi piace suonare fra la gente, e se una volta mi avessero detto che qualcuno mi avrebbe pagato per farlo non ci avrei creduto. Continuerei a suonare anche se un giorno dovessi farlo gratis».

 

Uno dei momenti fondamentali per un musicista jazz è la sperimentazione. L’esercizio. Tu quando trovi il tempo per questo?

«Io tento di farlo direttamente sul palco, perché la vita è complicata e a volte uno non ha tutto il tempo che vorrebbe per studiare, come si diceva una volta. Per cui sperimento in diretta, facendo il possibile perché ogni sera accada qualcosa di diverso e, di conseguenza, io sia davvero in azione e non stia semplicemente ripetendo qualcosa che ho già imparato a fare».

 

Negli anni Sessanta l’arrivo del rock e del RnB ha eclissato quelle che erano le figure portanti del jazz. Per stare dietro la moda lo stesso Miles Davis “cambiò il guardaroba e si diede a un rock psichedelico che non capiva affatto”.

«Chi l’ha detto?».

 

Prova a indovinare.

«Marsalis?».

 

Già.

«Io spero solo che ti stia sbagliando a riportare».

 

Pagina 131 del suo libro.

«Noi salutiamo Wynton, ma non siamo tanto d’accordo con lui. Quando si vuol processare qualcuno per qualsiasi cosa io non sono mai d’accordo. Miles ha fatto bene a fare esattamente ciò di cui aveva voglia in quel momento. Al tempo, la moda era vestirsi come, secondo Marsalis, un rockettaro scadente, secondo me, come era più congeniale all’artista. Miles si vestiva, faceva rock, assumeva un chitarrista rock e introduceva le tastiere. Faceva quello che voleva, perché semplicemente la musica aveva bisogno di essere viva. Non si può ripetere semplicemente ciò che si è fatto l’anno o il decennio precedente. Miles questo lo sapeva bene e in ogni suo disco si sente il tentativo di innovare. Di conseguenza sono certo che lo abbia fatto per una spinta naturale e non per questo bisogna pensare che gli sia venuto per forza male».

 

Il punto in questione è, secondo Marsalis, che quella di Miles non fu innovazione, ma un tentativo disperato di intercettare senza riuscirci un nuovo pubblico, attraverso un genere che non era il suo.

«È un processo alle intenzioni che Marsalis può fare. Io invece penso che Miles lo facesse per spinta naturale. Chi ha ragione? Io o Wynton? Lo chiediamo a Miles che è morto e che non ce l’avrebbe detto comunque?».

 

Lasciamo in pace il maestro e torniamo al jazz. C’è una costante nelle storie dei grandi artisti: si diventa grandi nel momento in cui si inizia a suonare senza imitare chi è venuto prima. Coltrane entrò nella storia della musica quando si liberò del fantasma di “Bird” Parker. Quando tocchi gli ottantotto tasti sei sempre e solo te stesso?

«Per me è talmente difficile capire in che momento smetto di imitare un musicista che ho amato molto, e in quale momento, invece, sono me stesso, che non so rispondere. Penso semplicemente che uno inizi naturalmente imitando qualcun altro e poi lentamente, negli errori che commette nel cercare di imitare quell’altro, viene fuori quella che è la sua vera natura».

 

Una tua peculiarità è quella di aver girato il mondo…

«In skateboard. Questo lo diciamo finalmente. Io ho girato il mondo in skateboard. Scusa ma non ho mai occasione di dirlo. Sembra che io sia un po’ rovinato, ma io ho girato il mondo in skateboard».

 

E se avessi a tua completa disposizione un aereo? A bordo ci sono il tuo piano e una sezione ritmica che puoi comporre con i migliori musicisti del mondo. Puoi andare in giro una settimana e suonare ogni giorno in un posto diverso. Quali sceglieresti?

«Quanti ne posso scegliere?».

 

Uno al giorno per una settimana. Non pensare alla stanchezza, al sound check, al montaggio degli strumenti.

«Come faccio non pensare a tutte queste cose? Non posso mica scegliere Buenos Aires e Tokyo nella stessa settimana».

 

Certo che puoi, devi dirmi solo perché?

«Ah! Tutto quello che dico lo devo motivare? Allora ti dico che farei sette giorni a Roma».

 

Ma come? Ti ricordo che sei stato uno dei pochi a suonare nella favela di Rio.

«Sì è vero, ma niente cambia il fatto che suonerei sette giorni a Roma. La capitale d’Italia».

 

Se Putin t’invitasse a suonare a Mosca?

«Chi?».

 

Vladimir Putin, il presidente russo.

«Ma perché Putin dovrebbe invitarmi a suonare? E se invitasse te?».

 

Io non sono mica un pianista di fama internazionale.

«Ma da quando in qua Putin invita i pianisti di fama internazionale a suonare a Mosca?».

 

Beh, gli piacciono molto gli artisti nostrani.

«Sì, quali? Ha invitato Berlusconi, che fa il pianista e però fa anche altre cose. Si son visti più volte, ma Berlusconi non è un rappresentante dei pianisti, non suona benissimo gli accordi di nona».

 

Credo che abbia le mani troppo piccole.

«Eh! Ma insomma che cosa vuoi sapere?».

 

Penso solo che sia strano che una persona che ha a disposizione un aereo per una settimana decida di farsi sette giorni a Roma. Senza nulla togliere alla bellezza della nostra capitale, sia inteso.

«Ma perché io penso alle ore di viaggio, quindi non mi viene da dirti città lontane. Che poi una persona che ha a disposizione un aereo dovrebbe essersi stancata di viaggiare quindi vorrebbe farsi sette giorni a Roma».

 

Almeno c’è un posto non ancora visitato in cui ti piacerebbe esibirti?

«Dunque. Mmm. Shh. No. Prova con un’altra domanda».

 

Jam session fra amici o concerto davanti a tremila persone?

«Jam session fra amici davanti a tremila persone».

 

Con una buona bottiglia di vino.

«Ovvio».

 

Hai mai pensato di scrivere un musical?

«Come ti è venuta in mente questa domanda?».

 

Se vuoi te ne faccio un’altra.

«No, mi piace. La risposta è che c’ho pensato fino ai sedici anni, poi non più. Niente musical».

 

Che musica ti piace ascoltare in questo momento?

«Tutti i giorni ascolto un disco diverso. In generale ascolto molto Joao Gilberto. Quando sono da solo a casa o solo in generale, metto su Joao che mi rilassa, mi riconcilia con il mondo e mi fa ricordare che esiste il bello nella vita».

 

L’ultima volta al cinema?

«Ho visto Under the skin, un film con Scarlett Johansson che ai fini del film vorrei giudicare inutile, ma non è bello, quindi dirò “sottoutilizzata”. La fotografia è talmente scura che avrebbe potuto recitare qualsiasi altra attrice. Però il film ha un ritmo non convenzionale. Il regista viene dal mondo dei videoclip, ma non lo fa pesare. Non è una pellicola da incassi al botteghino, ma parla di tematiche molto interessanti come quella degli alieni che si mangiano il nostro dolore. Quindi in definitiva gli darei un otto».

 

Parliamo dei tuoi esercizi di stile, meglio noti come parodie dei grandi cantautori italiani. Come li hanno presi quelli per i quali il jazz è una cosa seria?

«Lo devi chiedere a loro».

 

Non è possibile che nessuno abbia alzato il telefono per dirti: «Guarda che non m’è piaciuta».

«Non so in che mondo viva tu, ma nessuno alza il telefono per dirti le cose in faccia. Passano alle spalle».

 

Hai sentito qualche sibilo?

«Sì, ma va bene. Mi sembra giusto. Se uno difende una certa idea e tu gli vai contro, va bene. Dove starebbe altrimenti la democrazia? Ci sono persone che decidono che il jazz è finito in una certa epoca e che bisogna solo riprodurlo. Fra loro ognuno decide quale epoca sia stata la migliore, gli anni Trenta, i Cinquanta, ecc. Io ovviamente, facendo il musicista, non posso pensarla così. Posso solo sperare che il jazz continui in eterno perché sono qua a suonarlo».

 

E invece i protagonisti delle tue parodie che reazioni hanno avuto dopo essersi rivisti in te?

«L’unico che si è esposto è stato Angelo Branduardi che abbiamo ospitato alla trasmissione radio con David Riondino e sia io che Riondino in momenti diversi avevamo scritto una parodia di Branduardi, quindi gliele abbiamo fatte sorbire entrambe. Io ho intonato: “Lalalalala, lo gnomo e lo struzzo, lo struzzo e lo gnomo” (canta a cappella). È stato molto carino, ha sorriso e raccontato anche delle cose simpatiche. Poi ha cantato un suo pezzo in cui diceva cose molto simili a quelle della mia parodia. Ho pensato: “Vabbè se ne sarà accorto che sta copiando dalla mia imitazione”. Aveva fatto un pezzo che era stranamente simile. È una persona molto intelligente, un uomo di spirito. Era difficile essere ospite in quel programma perché noi li prendevamo tutti in giro, ma alcuni erano così abili che prendevano in giro noi che li prendevamo in giro. Secondo me, Branduardi ci ha preso in giro».

 

E Battiato, non pervenuto?

«L’ho incontrato sulle scale una volta e abbiamo parlato in inglese. Sai noi intellettuali. Te lo giuro. Non so perché, ma abbiamo parlato in inglese».

 

Ma almeno l’hai mai letto Kundera?

«Sì, da ragazzino ho letto L’immortalità, L’insostenibile leggerezza dell’essere, e un altro che al momento non ricordo. Sono passato?».

 

Con lode.

«Menomale, va!».

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