Il cambiamento climatico esiste. E fa paura

Catalyzing Actions, vertice straordinario dell’ONU, per ridurre le emissioni nocive. Aspettando accordo, la popolazione civile si è giù mobilitata, in un crescendo di consapevolezza

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/ValeB.jpeg[/author_image] [author_info]di Valeria Barbi. Ricercatrice per lavoro, viaggiatrice per vocazione e scrittrice per passione. Si occupa di politiche climatiche e tutela dell’ambiente. Ha molte passioni. Una di queste è dare sempre e comunque la propria opinione. Anche quando non è richiesta. Tende a non farsi condizionare dalle regole ma a vivere le proprie emozioni. Ha deciso di restare in Italia (per ora) per vedere chi la spunta tra la sua instancabile forza di volontà e questo Paese immobile[/author_info] [/author]

26 settembre 2014 – Erano all’incirca 150 i leader mondiali che, martedì scorso, hanno partecipato a “Catalyzing Actions”, il vertice straordinario indetto a New York dal segretario generale dell’ONU, Ban Ki-Moon.

Obiettivo dichiarato: raggiungere un accordo per la costruzione di una base politica comune che contenga impegni di riduzione delle emissioni di gas climalternati, da parte di tutti i Paesi, da sottoscrivere nel corso della Conferenza delle Parti della Convenzione ONU sui cambiamenti climatici, che si terrà a Parigi nel 2015. Dunque, non un incontro “negoziale” come quello che si terrà a a Dicembre a Lima (Perù), bensì una chiara chiamata ad agire presto, e in modo concreto, per fermare gli impatti che il cambiamento climatico sta avendo sul nostro pianeta. Chiamata alla quale, come ci si poteva aspettare, non hanno risposto i leader politici di Cina e India, i più grandi emettitori di gas ad effetto serra del pianeta.

Era dal 2009 che un gruppo così folto di capi di stato e di governo non si riuniva per discutere di clima. Ossia da quando, dopo una notte di accese discussioni, gli stessi leader fecero capitolare le speranze riposte nella tanto osannata Conferenza di Copenhagen, non riuscendo a trovare un’intesa su un nuovo trattato che sostituisse il Protocollo di Kyoto, datato 1997, e sottoscrivendo solamente una serie di “impegni volontari” per ridurre le emissioni entro il 2020.

 

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Tutto ebbe inizio ventidue anni fa, con il Vertice della Terra di Rio de Janeiro. Le Nazioni, resesi conto che qualcosa di potenzialmente devastante stava accadendo al nostro pianeta, decisero di dar vita alla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC). Essa venne costruita attorno a due perni principali: l’obiettivo di stabilizzazione dei gas serra in atmosfera, da raggiungersi nel rispetto del principio di equità e responsabilità condivisa ma differenziata in accordo con le rispettive capacità. Quest’ultimo si basava sulla convinzione che le nazioni industrializzate fossero storicamente le principali responsabili della situazione e, per questo, dovessero essere le prime ed uniche ad agire.

Da quel giorno, ogni anno, le parti aderenti alla Convenzione si sono riunite per discutere dello status quo e di come evitare il peggio. Tonnellate di carta stampata non hanno fatto altro che mettere nero su bianco le certezze sempre più indiscutibili degli scenziati: il maggiore responsabile del cambiamento climatico è l’uomo e se non facciamo nulla, ora, la situazione diverrà irrecuperabile. Spazio per agire ce n’è ancora. Ma dobbiamo muoverci, il più presto possibile.

Tuttavia, se da una parte il mondo scientifico ha fatto sentire con forza, e con prove lampanti, la sua voce, dall’altra il mondo della politica ha risposto sempre con inadeguatezza e una quasi ostentata indifferenza. I leader mondiali, in questi anni, sono stati bravi a porsi sotto i riflettori alla prima occasione utile per parlare di “azioni concrete”, “green jobs” – espressione tanto cara specialmente ai politici nostrani – “patti vincolanti”, ma tutta questa prontezza io non l’ho mai vista.

Quello che invece ricordo bene è la capacità di apparire sulle prime pagine di tutti i giornali nel periodo clou del dibattito annuale in sede ONU, per poi scomparire nel nulla un attimo dopo. O almeno fino al primo evento climatico estremo scaraventato nelle prime pagine dei giornali. E allora lì ricomincia la recita: “dobbiamo fare qualcosa!”, “l’Italia è pronta”, “no, fermo, è pronta anche la Spagna, la Germania… Sono pronti gli Stati Uniti…”. Siamo sempre pronti tutti, con le parole.

Cosa c’è di diverso, allora, questa volta? Non certo la credibilità dei politici. Almeno a mio parere. Mi occupo di clima, ho studiato Scienze Politiche, dovrei aver fiducia, almeno un po’, in chi mi governa, nel processo negoziale, nelle potenzialità dei vertici intergovernativi… Ma non è così. Personalmente mi sono sempre trovata concorde più che altro con le parole di Al Gore, il quale, in un’intervista rilasciata proprio nel 2009 all’apertura della Conferenza di Copenhagen, dichiarò pubblicamente che secondo lui la lotta ai cambiamenti climatici doveva essere una rivoluzione.

Una rivoluzione che non si sarebbe mai compiuta al tavolo dei negoziati, ma fuori, tra la gente comune. Una battaglia che non poteva nascere da compromessi economici, politici e storici, bensì nelle strade, nelle case, nelle azioni quotidiane dei cittadini.

Ecco, io credo fermamente che sia così. Deve essere così. Ed è per questo che il vertice tenutosi solo due giorni fa è diverso da tutti gli altri. Ha in sé il seme della rivoluzione, della voglia civile di lottare per il nostro pianeta, di dire “ora basta!”, “ci siamo anche noi”, “questo pianeta è anche nostro e noi contiamo qualcosa”.

159 paesi coinvolti, 3 mila manifestazioni spontanee per una mobilitazione che domenica ha coinvolto il cuore di New York, con più di 400.000 persone riunite a Manhattan per dire che loro “stanno dalla parte del clima”, Delhi, Rio de Janeiro, Dar er Salaam, Papua Nuova Guinea… E non poteva mancare la capitale nostrana con la marcia “New York chiama Roma”, iniziativa del Coordinamento Power Shift Italia, e promossa e organizzata da Italian Climate Network, Legambiente e Kyoto Club in collaborazione con Avaaz Italia.

Grazie anche ai social network, le immagini dei coloratissimi cortei sono sotto gli occhi di tutti da cinque giorni, fornendo una prova lampante del fatto che il cambiamento climatico è ora capace di smovere le coscienze. E, cosa ancora più importante, che queste coscienze hanno il diritto di essere rappresentate sul piano politico da una classe dirigente responsabile e rispettosa del nostro presente e del nostro futuro.

Le facce arrabbiate, le richieste urlate a gran voce, i cartelloni alzati al cielo, hanno evidenziato la preoccupazione, la vergogna, la rabbia, ma anche, e forse soprattutto, la paura che il cambiamento climatico provoca in tutti noi. Alla faccia delle correnti negazioniste che ancora oggi trovano spazio nei media.

E anche assumendo l’ipotesi che le folle che si sono riunite non porteranno ad un concreto cambiamento, è anche vero che esse hanno rappresentato forse la più numerosa manifestazione degli ultimi dieci anni. Nemmeno la crisi economica, con le sue rivolte di piazza, è riuscita a fare altrettanto. Ci sono voluti più di vent’anni ma l’opinione pubblica sembra finalmente essersi resa conto che in ballo c’è molto di più del sacrosanto diritto ad avere un posto di lavoro, una casa e uno compenso adeguato alle ore di lavoro. In ballo c’è la sopravvivenza del pianeta in cui viviamo e, per citare uno slogan ormai ben noto: “there’s no Planet B”, “non c’è alcun Pianeta B”.

 

 

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