Il giorno di #OccupyHK

Situazione in evoluzione a Hong Kong dove, trainato dagli studenti, è cominciato Occupy Central, il movimento che chiede elezioni dirette e a suffragio universale per il 2017. Da una parte, la società civile, dall’altra i poteri costituiti, fedeli a Pechino. Il movimento è pacifico ed estremamente composito

 di Gabriele Battaglia, da Pechino
tratto da ChinaFiles

.

29 settembre 2014 – Mentre scriviamo, gli studenti che stanno occupando l’area di Hong Kong dove si trovano gli uffici del governo e del consiglio legislativo stanno fronteggiando la polizia. Gli agenti li avevano circondati nel primo pomeriggio locale, chiudendo l’area e impedendo a chunque di accedervi, ma altri manifestanti e semplici cittadini solidali hanno a loro volta formato un ampio cerchio attorno agli agenti. Così, a cerchi concentrici, si va disegnando il movimento Occupy Central, nel cuore dell’ex colonia britannica.

41709

“Occupy” è ufficialmente cominciato stanotte. Il via al movimento pan-democratico che chiede l’elezione diretta e a suffragio universale per le elezioni del 2017 è stato dato da Benny Tai, uno dei suoi leader, all’1:45 ora locale. Tai è stato un po’ tirato per la giacchetta dagli studenti, che per due notti hanno occupato gli spazi antistanti ai palazzi del governo e del consiglio legislativo. Da una settimana avevano indetto agitazioni e il boicottaggio delle lezioni. A questo punto, sono loro l’avanguardia del movimento. Un’avanguardia estremamente giovane, alcuni non sono neanche maggiorenni, ma nel 2017 quasi tutti potranno votare.

Fino a ieri Benny Tai – che è un professore di legge – sosteneva che Occupy non sarebbe cominciato tanto presto, stanotte è arrivata invece la decisione di cavalcare le agitazioni studentesche. E a questo punto sono arrivate anche le prime defezioni, con alcuni studenti che hanno lasciato la piazza perché non vogliono che qualcuno metta il cappello sul loro movimento. Altri, comuni cittadini, solidarizzano con la componente più giovane della società hongkonghina, ma non si identificano con le richieste dei pan-democratici. Qualcuno è semplicemente stanco o teme cariche della polizia, che finora ha arrestato un’ottantina di persone.

Tra quelli rimasti, molti indossano cerate contro i getti d’acqua e addirittura rivestimenti di cellophane da mettere sul volto per difendersi dallo spray al peperoncino.
Al momento, la strategia della disobbedienza civile e della resistenza pacifica è un punto assolutamente imprescindibile e condiviso. “Abbiamo una superiorità morale che ci viene proprio dalla non violenza” – dicono i manifestanti – e non vogliono quindi offrire pretesti a una repressione più decisa.
La situazione è in evoluzione.

A Hong Kong, le elezioni a suffragio universale sia per il “Chief Executive” sia per il consiglio legislativo (LegCo), al momento non ci sono. Il governatore è eletto da una commissione di 1200 persone, metà delle quali sono di fatto nominate dalle corporation (attraverso un sistema di comitati sul territorio).

La situazione è un retaggio dell’amministrazione coloniale britannica (durata fino al 1997), che si basava su dei consigli di notabili e su un governatore nominato da Londra. Pochi mesi prima di restituire la colonia alla Cina, gli inglesi cercarono di accelerare i tempi di una riforma democratica, tanto non era più affar loro e così lasciavano la patata bollente a Pechino. Il che mandò su tutte le furie la leadership cinese: è vero infatti che negli anni Ottanta Deng Xiaoping aveva lanciato la formula “un Paese, due sistemi” per superare le resistenze della Thatcher; ma, per “due sistemi”, il “piccolo timoniere” non intendeva certo l’elezione diretta a suffragio universale, bensì il buon vecchio sistema composto da parlamentino e governatore sotto discreto controllo, non più di Londra ma di Pechino.
E così è.

Ciò nonostante, nel 2007 la Commissione permanente del Politburo cinese (cioè i 9 – oggi 7 – che di fatto governano la Cina) si era sbilanciata fino a promettere il suffragio universale per le elezioni a Chief Executive del 2017 e del LegCo nel 2020. Da allora sono cominciate le consultazioni tra Pechino, l’amministrazione di Hong Kong e i partiti.

In questo contesto, si è formato il movimento pan-democratico, che vuole la piena realizzazione della liberaldemocrazia per il 2017. Quando si è capito, nel corso delle consultazioni, che non sarebbe stato così, è nato Occupy Central, cioè il movimento che minaccia di occupare il quartiere della politica e degli affari, creando così problemi all’establishment di Hong Kong e a Pechino.

La città e nata e vive infatti grazie alla propria condizione di hub del capitalismo deregolato. Qualsiasi situazione di “disordine” politico danneggia questo status e gli hongkonghini sono noti per un notevole pragmatismo che non perde mai di vista il portafoglio. Un’opinione pubblica pervasa da tale mentalità spiega come mai assistiamo, anche in questi giorni, a una continua altalena tra avvicinamento al movimento e allontanamento da parte della gente comune. Il tutto con una certa discrezione.

Insomma, gli hongkonghini sono combattuti tra rivendicazione dei propri diritti e sornione attendismo in vista di un’evoluzione graduale. Questa dicotomia rappresenta in linea di massima anche i due schieramenti politici che si fronteggiano oggi a Hong Kong.

La promessa di Pechino di suffragio universale per il 2017 e il 2020 è stata effettivamente mantenuta, ma non quella sull’elezione diretta del Chief Executive.
La leadership cinese ha infatti imposto, con una direttiva che risale al 31 agosto scorso, un sistema di filtro dei candidati che consentirà solo a quelli “patriottici”, cioè filo-cinesi, di concorrere.

In pratica, tutti potranno votare per il governatore, ma ci si potrà esprimere su una rosa limitata composta da due-tre candidati fedeli a Pechino. Inoltre, un documento emesso nei mesi scorsi aveva lasciato intendere che la formula “un Paese, due sistemi” e l’autonomia sancita dalla “basic law” di Hong Kong dipende comunque dalla discrezionalità di Pechino: una concessione più che un fatto assodato.

A questo punto, lo schieramento pan-democratico è andato in ebollizione. Chiede un sistema “genuinamente democratico”, con la possibilità di scegliere candidati che corrispondono alla volontà popolare. E teme che i margini di autonomia dell’ex colonia britannica si vadano sempre più riducendo.

A inizio settembre, i membri pan-democratici del Consiglio Legislativo – l’opposizione – hanno abbandonato le consultazioni con il governo, annunciando ostruzionismo, proprio mentre diverse organizzazioni studentesche proclamavano la settimana di boicottaggio, che è effettivamente iniziata il 22 settembre con una marcia di circa 13mila studenti sulla Chinese University, appoggiata da molti professori. In seguito, un’altra marcia di circa 700 studenti è riuscita a eludere i controlli e a dirigersi proprio sul quartiere degli affari di Hong Kong, in una specie di prova generale.

Il reale oggetto del contendere è un sempre più stretto legame con la Cina che fa temere a buona parte dell’opinione pubblica di Hong Kong sia la perdita delle proprie prerogative democratiche sia la marginalizzazione della città, in quanto capitale finanziaria d’Oriente, rispetto a Shanghai, potenza emergente. Il mondo del business vede invece proprio in questo legame la possibilità di conservare il proprio giro d’affari e teme che le agitazioni facciano perdere a Hong Kong i propri vantaggi competitivi, da paradiso capitalista.

Le borse di Hong Kong e Shanghai sono sul punto di integrarsi ulteriormente e sono hongkonghine molte delle immobiliari che operano nella Cina continentale e contribuiscono a cementificarla. È sul potentissimo mondo degli affari che fa leva Pechino, in un’inedita alleanza tra partito comunista e capitalismo deregolato. Basti ricordare che il governatore di Hong Kong, cioè l’oggetto del contendere, si chiama Chief Executive: amministratore delegato.

Così, l’opposizione di Hong Kong è un movimento trasversale in cui convivono i fautori di una liberaldemocrazia prettamente elettorale, alla occidentale, e istanze radicali anarchiche o sindacalista-rivoluzionarie. I media mainstream occidentali, naturalmente, danno visibilità alla prima componente e ignorano completamente le istanze autenticamente anticapitaliste, che pure ci sono.

.

 

Sosteneteci. Come? Cliccate qui!

associati 1

 

 



Lascia un commento