di Giulia Bondi
3 ottobre 2014 – Il telefono squilla a metà mattina. C’è un prefisso internazionale: 0047. La voce all’altro capo è squillante, giovane. L’inglese è sgrammaticato ma efficace, quell’inglese-koiné imparato alla scuola della strada e del viaggio. “Ti ricordi di me? – dice la voce in inglese: – Sono Daniel, Eritrea, Lampedusa! Ti sto chiamando dalla Norvegia!”.
Daniel, che oggi ha 24 anni, è uno dei 155 superstiti della strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, quando un peschereccio carico di migranti naufragò a poche centinaia di metri dalla costa facendo 366 vittime, in maggioranza eritrei. Pochi giorni dopo, l’11 ottobre, altre 200 persone per lo più di nazionalità siriana morirono in un altro incidente al largo di Malta.
Due tragedie alle quali l’Italia e l’Unione Europea avrebbero risposto con l’avvio, il 18 ottobre 2013, dell’operazione militare-umanitaria Mare Nostrum: navi militari schierate in alto mare per intercettare e salvare le imbarcazioni salpate dall’Egitto o dalla Libia. L’operazione, con un costo medio di 9milioni 300mila euro al mese, ha consentito di trarre in salvo 91 mila persone in poco meno di un anno, secondo i dati ufficiali della Marina e del Viminale.
Sono state comunque oltre 3mila, forse quasi 4mila con i naufragi di settembre 2014 al largo di Malta, le vittime nel mare Mediterraneo nei primi 9 mesi del 2014. Lo dicono i dati dell’Iom, Organizzazione Mondiale per le migrazioni, che in un recente report, “Fatal Journeys”, tenta di documentare a livello mondiale il numero di persone che muoiono nel tentativo di migrare.
Daniel (il suo nome, come altri in questo articolo, è stato cambiato per tutelarlo) era partito dall’Eritrea a piedi, verso il confine del Sudan: “Non ricordo nemmeno più quando è stato, forse a fine 2010”, aveva raccontato a Lampedusa pochi giorni dopo il naufragio, seduto sotto la statua della Madonna del mare. Per un giovane di 23 anni, in fuga da tre, è normale che “raccontare del viaggio” non possa ridursi alle ultime ore, quelle dell’incendio e del naufragio.
Prima di imbarcarsi per Lampedusa, Daniel aveva attraversato il deserto del Sudan con la razione d’acqua garantita dai trafficanti, mezzo litro al giorno. Al confine con la Libia era stato rapito e aveva dovuto chiamare la famiglia per farsi inviare altro denaro. Era stato appeso per le caviglie dai suoi carcerieri libici. Per uno come Daniel, le tre ore nelle quali ha nuotato in mezzo ai cadaveri prima di essere soccorso davanti alla baia della Tabaccara non sono l’unica occasione in cui ha rischiato la vita.
Un anno dopo, Daniel vive in una cittadina a qualche ora di auto da Oslo, in un appartamento che divide con un altro ragazzo. Sta studiando il norvegese (“una lingua molto difficile”, ammette ridendo), ha un nuovo passaporto e aspetta di potersi iscrivere all’università, o trovare un lavoro. Ha ripreso parte dei 20 chili di peso persi durante il viaggio, e la sua voce rivela ottimismo, anche se – confessa – “fare conoscenza con i norvegesi non è molto semplice, sia per la lingua sia perché sono molto riservati”.
Chiede di poter leggere (“anche se sono in italiano”) gli articoli che parlano di lui, promette di farsi sentire di nuovo e ringrazia chi ha raccontato la sua storia, proprio come aveva fatto a Lampedusa: “Grazie, perché avevo tanto bisogno di parlarne con qualcuno”. Le sue ultime parole prima di congedarsi sono per l’Italia: “Per fortuna non avevo lasciato le impronte digitali e me ne sono potuto andare!”.
Sulla barcone sul quale viaggiava Daniel c’era anche Are, qualche anno più vecchio, uno dei primi a essere soccorsi dagli otto amici che erano usciti la notte del 3 ottobre con una piccola barca, il Gamal, e anziché andare a pesca si erano trovati a raccogliere dal mare 55 persone. Are, dopo essere stato tratto in salvo, aveva avuto anche la forza di aiutare i soccorritori a tirare su dal mare altri compagni di viaggio.
Rimasto a lungo in Italia per testimoniare al processo contro gli scafisti della sua imbarcazione, anche Are all’inizio del 2014 è riuscito a raggiungere la Scandinavia. Vive a Laxa, a nord ovest di Stoccolma. Per la copertina del suo profilo Facebook ha scelto la foto del peschereccio Angela C, un’altra delle imbarcazioni che quella mattina del 3 ottobre contribuirono ai soccorsi.
L’isola di Lampedusa si prepara a ricordare la tragedia di un anno fa con una serie di eventi, ai quali parteciperanno anche alcuni superstiti: con l’aiuto di associazioni come il “Comitato 3 ottobre” sono tornati in Italia, nella speranza di poter identificare parenti e amici tra i corpi sepolti senza nome nei cimiteri siciliani.
Linda Barocci, avvocato di Pesaro che durante la stagione estiva lavora a Lampedusa, era una degli otto soccorritori del Gamal. “Subito dopo la tragedia non è stato facile per me. Ritornare alla vita di tutti i giorni con una esperienza che ci ha segnato e lo farà per tutta la vita”, racconta. Linda ha parole molto dure per l’isola e per il suo sindaco: “Nessuno ci ha aiutato – dice. – Lampedusa ha taciuto in tutto e per tutto: Giusi Nicolini non ci ha degnato di uno sguardo. Né appena accaduto né mai”. Nel corso dell’anno, riprende, “abbiamo mantenuto i contatti, anche se sporadici, con i ragazzi che abbiamo salvato”.
Molti l’hanno chiamata per le feste. Come si fa con i familiari, con chi ti ha messo al mondo, e anche con chi ti ha riportato alla vita. “Alcuni vivono in Svezia, in generale tutti quelli che hanno potuto hanno lasciato l’Italia”, dice Linda con una risata amara: “Da qui volevano solo fuggire, e come si può dargli torto?”.
Anche Mneear, siriano, sbarcato a Lampedusa pochi giorni prima del 3 ottobre, con la moglie ventenne incinta, ora vive all’estero. È riuscito a evitare di lasciare le impronte digitali in Italia e a essere accolto in Olanda, vicino Eindhoven. Manda via internet fotografie che lo ritraggono sorridente, con la bicicletta su un marciapiede pulito, accanto a un prato verde, mentre porta in un marsupio il suo bimbo, nato pochi mesi fa. Altre foto lo ritraggono in una pizzata con i vicini di casa, una coppia di cinquantenni olandesi. Gran parte della famiglia è ancora in Siria, qualcuno in Libano, solo la suocera è riuscita a raggiungerli in Europa.
Di Khaled, imprenditore siriano che aveva documentato in un video la sua traversata, portata a termine poche ore prima del grande naufragio, non ci sono più notizie. Da Lampedusa aveva cercato di raggiungere la Svezia, o la Germania. Per un po’ ha risposto ai messaggi sul cellulare, poi dallo stesso numero ha cominciato a rispondere un altro. “E Khaled?” “Khaled problem”, è stata l’ultima comunicazione, prima del silenzio.
Qualcuno ce la fa, di molti si perdono le tracce nel viaggio attraverso l’Europa, appena meno incerto di quello attraverso il mare. E che succede a chi rimane in Italia e presenta qui la propria domanda di asilo? Una domanda ancora più attuale dopo che il Viminale, pochi giorni fa, ha ribadito ufficialmente l’obbligo di fotosegnalare e identificare con le impronte digitali tutti i migranti e richiedenti asilo che arrivano in Italia. Si impedirà così di fatto la pratica, molto comune soprattutto per siriani, eritrei, somali e in generale per chi ha reti familiari o di amici in altri paesi europei, di considerare l’Italia un semplice paese di transito.
Ma ai richiedenti asilo sarà necessario garantire un’assistenza adeguata. “In Italia ci sono enormi differenze tra regione e regione, città e città”, spiega Giorgio Dell’Amico della cooperativa sociale Caleidos, responsabile per la provincia di Modena dell’accoglienza di 227 giovani salvati dalle imbarcazioni di “Mare Nostrum”. “Noi – prosegue – abbiamo risposto a una chiamata della Prefettura e ottenuto l’incarico di gestire l’accoglienza per una cifra pro capite di 32 euro, con la quale sistemiamo i richiedenti asilo in appartamenti, li seguiamo nell’accesso ai servizi, organizziamo occasioni di integrazione e corsi di italiano”.
Le attuali direttive della Regione Emilia-Romagna prevedono per questi giovani (in maggioranza africani, provenienti da Mali, Senegal, Gambia e Costa d’Avorio, ma anche asiatici che lavoravano in Libia e sono fuggiti da quella guerra) un trattamento diverso rispetto a chi è inserito nei posti del progetto nazionale Sprar, il sistema di protezione per rifugiati e richiedenti asilo.
“Ai rifugiati spetterebbe una prima assistenza, progetti di integrazione in attesa dell’audizione in commissione, e poi, dopo l’ottenimento dello status, un percorso di altri sei mesi per ‘uscire’ dal progetto, cercando contatti per una sistemazione e magari un lavoro”, spiega Dell’Amico.
“I salvati da Mare Nostrum – prosegue – sono anche loro richiedenti asilo, né più né meno, ma allo stato attuale il loro progetto prevede che, una volta ottenuta la protezione umanitaria, debbano andarsene dagli appartamenti in cui sono accolti entro due settimane: un tempo certamente insufficiente per trovare un lavoro e rendersi autonomi”.
Il problema si comincerà a porre concretamente tra qualche mese: “Alcuni dei nostri assistiti stanno aspettando la risposta della Commissione tra novembre e dicembre e se la situazione rimarrà questa si troveranno certamente in difficoltà, anche perché il permesso che ottengono non dà comunque diritto a lavorare fuori dall’Italia”. Il sistema di accoglienza dei cosiddetti “ragazzi Mare Nostrum” funziona a macchia di leopardo, così come lo scorso anno era stato per l’“Emergenza nord Africa”, affidata ai Comuni.
“Ogni Prefettura decide a modo suo, in alcuni casi, come in Emilia, ci sono tavoli regionali, e da noi quasi tutte le persone sono inserite in percorsi strutturati, ma esistono anche diverse realtà dove le Prefetture hanno stipulato convenzioni con gli alberghi e non forniscono alcun servizio o progetto di integrazione a parte il vitto e l’alloggio”, prosegue Dell’Amico.
Le prospettive sono incerte: “Supponiamo che il progetto di accoglienza verrà prorogato anche per il 2015, ma non ne siamo certi”, spiega Dell’Amico. “I ragazzi che abbiamo accolto sono tutti giovani e molto in gamba – spiega: – non abbiamo avuto particolari problemi, a parte quelli di normale gestione che ci possono essere in tutti i condomini, con i vicini di casa”. Un problema è l’isolamento: fare in modo che i richiedenti asilo possano incontrarsi anche con italiani, e magari cominciare a farsi una rete di contatti sulla quale costruire la propria vita dopo, sperando di non essere lasciati soli due settimane dopo avere ottenuto il permesso di soggiorno.
Altra incertezza sarà la gestione dei soccorsi in mare nel momento in cui Mare Nostrum dovrà essere sostituita dalla missione europea Frontex Plus. Associazioni e gruppi (per esempio la rete della Carta di Lampedusa) continuano a chiedere la creazione di corridoi umanitari che consentano di evitare la traversata in mare e di presentare richiesta di asilo direttamente nei primi paesi in cui si rifugiano, come il Libano, l’Egitto o la Turchia nel caso dei siriani.
Per i progetti di “resettlement”, cioè trasferimento dei rifugiati dal primo paese di fuga direttamente in Europa, Nord America e Australia, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati è riuscito a ottenere dagli stati circa 40mila posti dall’inizio del 2013, dai 20 della Bielorussia ai 24 del Liechtenstein, fino alle 20 mila “ammissioni con permesso umanitario” della Germania o agli Stati Uniti, che non hanno posto un tetto al numero di persone da accogliere.
L’Italia, che in questi giorni si ritroverà commossa a ricordare le 366 vittime di Lampedusa, non figura tra i paesi che hanno aderito al programma.
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