Napoli: “This bastard, dirty people”

“Le donne di Forcella sono stanche, hanno lo sguardo stanco ma non sono stanche di lottare, per i figli” è quanto racconta una delle protagoniste di questa silenziosa, ma non per questo meno eroica rivoluzione civile ed umana

di Alessandro Ingaria e Simona Chiapparo
foto di Gianluca Cecere

 

12 ottobre 2014 – Napoli, città di quella “peste morale” che, dai tempi della terribile epidemia del 1943, non ha smesso di corrodere l’animo dei suoi cittadini e delle sue istituzioni. Napoli, città di mostruose anomalie ambiguamente decantate (e forse volute) dal governo centrale e dall’establishment culturale mediaticamente riconosciuto.

“Napoli è una trincea difficilissima”, “…Napoli zona di guerra” sono recenti dichiarazioni dell’attuale ghost-Ministro degli Interni e del suadente intellettuale che ha costruito la sua carriera da writer-star, abusando dei drammi di questa città dei vinti. Affermazioni esteticamente difformi ed eticamente pericolose che giustificano quell’opinione, diffusa soprattutto al nord, ma a volte anche nell’esasperato popolo napoletano, che non ci può essere che una fine tragica per Napoli e per la sua gente.

Una città strana, Napoli, dove passeggiando per la pedonale e graziosa via Toledo si trovano decine di vigili, poliziotti e carabinieri a passeggio, come a dimostrare che lo stato esiste. O dove l’esercito staziona in piazza del Plebiscito a beneficio delle macchine fotografiche dei turisti. Ma è sufficiente girare l’angolo per rendersi conto che, di quello stato, non vi è più traccia; troppo impegnato da qualche altra parte per prestare attenzione ai propri cittadini di classe inferiore.

Abitanti di quartieri “difficili”, controllati e gestiti dall’altro stato che, in tempi di crisi, garantisce illegali economie di sussistenza e alimenta i vizietti della Napoli bene. Quartieri dove molte famiglie crescono i propri figli lavorando per il mercato degli stupefacenti e dove molti figli di famiglie della Napoli bene ne sono assidui clienti.

Parlare di guerra, di trincea è un errore semantico talmente grave da passare quasi inosservato. Identifica le fazioni, autorizza a pensare che qualcuno debba vincere. Ma sono solo sconfitte. Sconfitto un popolo, sconfitto chi finge di amministrare quel popolo. Perché anche quando lo stato usa la propria forza per debellare una famiglia, un clan, dietro l’angolo un altro è pronto a subentrare e continuare la gestione del potere. Perché alla base c’è quella logica lontana, dolorosamente raccontata ne La pelle di Curzio Malaparte, che disvelò Napoli e la pietosa vergogna dei vinti, ricostruendo una storia più complessa, quella dell’Europa in macerie dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Eppure, nello sguardo dei miserabili e rassegnati cittadini napoletani, a volte, si intravede un orizzonte, una via di fuga. Una prospettiva che si coglie nello sguardo delle donne, come quelle che abitano Forcella.

Contraddicendo miti letterari contemporanei sulla fatalità del male, rappresentato da ‘o sistema, a Forcella la magistratura e le forze dell’ordine sono riusciti a far decadere ‘o re che spadroneggiava negli anni ottanta e novanta. Nel quartiere l’uommene (“gli uomini”) sono spariti: molti sono in carcere, in regime di 41bis o con  pene minori, e molti altri sono morti per eventi microcriminali ordinari. E così a Forcella sono rimaste le donne da sole, con figli da mantenere e da distogliere da un destino in cui delinquere sarebbe una scelta facile. Donne abbandonate da uno stato che ha debellato lo storico clan locale, e le cui famiglie oggi, dopo la confisca dei beni, appartengono ad un sottoproletariato estremo, vivono in case occupate abusivamente e non riescono neanche a comprare i libri scolastici per i figli.

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Non è una guerra quella di queste donne, è un atto di resistenza. E’ il coraggio e la libertà  di opporsi, allevando in solitudine le nuove generazioni in nome di un’etica di un futuro dignitoso che la Napoli bene ha abiurato. Donne, quelle di Forcella, costrette a essere madri e padri. A volte con il marito pentito, il che significa che il proprio figlio deve imparare regole di auto segregazione spaziale, pena la vita, se erroneamente transita in una via o in una piazza dei nemici di quel pentito.

“Le donne di Forcella sono stanche, hanno lo sguardo stanco ma non sono stanche di lottare, per i figli” è quanto racconta una delle protagoniste di questa silenziosa, ma non per questo meno eroica rivoluzione civile ed umana, che attraversa sacche di quella popolazione napoletana storicamente vinta ma che si ostina a sopravvivere. Nei vicoli bui, celati dietro lo straordinario patrimonio culturale che continua ad attirare a Napoli turisti da tutto il mondo. Le donne di Forcella, tra la legge dello stato e la legge divina, scelgono una terza legge, quella dei figli.

Non è guerra, è sentimento viscerale di un luogo caldo, forte della propria identità e del proprio orgoglio. In un Paese lontano, una città molto simile a Napoli ha visto cambiare il proprio rapporto con l’orgoglio e la città. Quella città si chiama Bogotà e il suo sindaco era Antanas Mockus. In quella città, con quel sindaco, nessuno parlava di guerra ma di cittadini: cittadini in formazione che l’amministrazione doveva aiutare, imparando essa stessa da loro, costruendo insieme il concetto di appartenenza a una comunità, a un città. Ma non solo Bogotà: anche in un’altra città colombiana, Medellin, lo stato è tornato nei quartieri difficili, costruendo funicolari per avvicinare le zone marginali al centro, ristrutturando parchi, edificando scuole, biblioteche, case popolari e affidando il servizio di sicurezza dei barrios (quartieri) ai componenti delle pandillas (l’equivalente dei clan a Napoli) che vedevano riconosciuto un ruolo nello stato e non nell’antistato.

Sono esempi di successo applicabili a Napoli. E sono le fondamenta su cui costruire quello stato che non esiste, rinnegando quella tossica nostalgia con cui il Meridione si compiace di sprofondare nei propri fallimenti, innescando un cambiamento vero, nella città di Napoli e, magari, nell’intero Paese.

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